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domenica 30 ottobre 2011

La rosa di Paracelso di J. L. Borges


La rosa di Paracelso

di J.Luis Borges
 
Nel suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio, al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo.
Imbruniva. Il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari. Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo. Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera. La notte aveva cancellato l’athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta. Insonnolito, l’uomo si alzò, salí faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente. Uno sconosciuto entrò. Anch’egli era molto stanco. Paracelso gli indicò una panca; l’altro sedette e attese. Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola.
Il maestro fu il primo a parlare.
“Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente”, 
disse, non senza una certa enfasi. 
“Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”
“Il mio nome non ha importanza”, 
replicò l’altro.
“Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni.”
Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte, e d’oro. Lo fece con la mano destra.
Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.
Si chinò, giunse le estremità delle dita, e disse: 
“Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro. Non è l’oro ciò che cerco, e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo.”
“L’oro non mi interessa”, 
rispose l’altro.
“Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra.”
Paracelso disse lentamente:
“La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta.”
L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse, con voce chiara:
“Ma, esiste una meta?”
Paracelso si mise a ridere.
“I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario, e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”
Vi fu una pausa, e l’altro disse:
“Sono pronto a percorrerla con te, anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l’accesso. Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova.”
“Quando?” 
disse paracelso, con inquietudine.
“Subito”, 
rispose il discepolo con brusca determinazione.
Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco.
Il giovane levò in alto la rosa.
“Affermano”, 
disse, 
“che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri, per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua.”
“Sei molto credulo”, 
disse il maestro. 
“Non so che farmene della credulità; esigo la fede.”
L’altro insistette.
“È proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l’annientamento e la resurrezione della rosa.”
Paracelso l’aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.
“Sei credulo”, 
disse. 
Tu dici che io sono capace di distruggerla?”
“Nessuno è incapace di distruggerla”, 
rispose il discepolo.
“Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?”
“Non siamo nel Paradiso”, 
disse ostinato il giovane; 
“qui, sotto la luna, tutto è mortale.”
Paracelso si era alzato in piedi.
“E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?”
“Una rosa può bruciare”, 
disse il discepolo in tono di sfida.
“V’è ancora del fuoco nel camino”, rispose Paracelso. Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata, e che sia la cenere a essere reale. Io ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo.”
“Una parola?” 
disse stupefatto il discepolo. 
“L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?”
Paracelso lo guardò con tristezza.
“L’athanor è spento”, 
ripeté, 
“e gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”
“Non oso domandare quali”, 
disse l’altro con malizia o con umiltà.
“Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala.”
Il discepolo disse freddamente:
“Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi.”
Paracelso rifletté. Infine disse:
“Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa.”
Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:
“E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?”
L’altro replicò, tremando:
“So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”
Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la gettò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po’ di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo.
Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:
“Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà.”
Il giovane si sentì pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.
Si inginocchiò, e disse:
“Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa.”
Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro, tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c’era nessuno?
Lasciare le monete d’oro sarebbe stata un’elemosina. Le riprese uscendo.
Paracelso l’accompagnò ai piedi della scala e gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto.
Entrambi sapevano che non si sarebbero rivisti mai più.
Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta, raccolse nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce. La rosa risorse.

LA LAUREA PEZZO DI CARTA CHE GARANTISCE LA MISERIA

Come è ormai evidente a chiunque abbia a che fare con il mondo del lavoro e come confermano le statistiche di una ricerca europea della European Foundation for Improvement of Living and Working Conditions intitolata "Shifts in the job structure in Europe during the Great Recession", la laurea ostacola il collocamento nel mondo del lavoro, almeno in Italia.
In Italia il lavoro che più è cresciuto è stato quello di collaboratrice domestica. La perdita di posti di lavoro in Italia è dovuta principalmente ai tagli nella pubblica amministrazione e nell'istruzione.
L'Italia è anche l'unico stato membro in cui tutti i posti di lavoro "professionali" sono in declino. A livello cumulato questa perdita di posti di lavoro ammonta a circa 500.000 posti - equivalente alla perdita netta del mercato del lavoro italiano nel biennio.
Ciò configura una sentiero distinto rispetto a quello degli altri Stati Membri, dove le perdite di posti di lavoro si sono concentrate ai livelli più bassi di occupazione e salari.

E' chiaro dunque che la laurea oggi non serve a nulla, anzi è qualcosa che fa perdere tempo.
Il laureato si trova a 21-28 anni con un pezzo di carta che attesta conoscenze che sono considerate assolutamente inuitili dal mondo del lavoro, che cerca invece manodopera a bassa qualifica e non sa cosa farsene della conoscenza dei cosiddetti "knowledge workers".
I giovani neolaureati si trovano di fronte all'evidenza: che per il poco di conoscenza richiesta nell'economia attuale, per un posto che richiede conoscenza ci sono centinaia di candidati e che data la sovrabbondanza di offerta quell'ambito posto è sottopagato.
Con la crisi poi i dati statistici (oltre che l'esperienza diretta penso di chiunque abbia a che fare con il mondo del lavoro e le imprese) dimostrano che la situazione per i "knowledge workers" è ulteriormente peggiorata con tassi di disoccupazione e di licenziamento in crescita se paragonati a quelli dei lavoratori dequalificati...
Quando sono in commissione di laurea ai neolaureati si usa ancora fare i complimenti ... in realtà e in tutta sincerità io sento di volere fare loro le condoglianze...
Non capisco per cosa dovrebbero essere i complimenti dato lo scenario disastroso in cui si troveranno a partire dal giorno dopo.
Chi studia lo faccia per amore di conoscenza, con o senza l'università. Il pezzo di carta non serve a chi ama la conoscenza e non serve a trovare lavoro.
di Gandolfo Dominici

mercoledì 26 ottobre 2011

THERE ARE MORE THINGS


[...] Non cercherò di descriverli, perchè non sono sicuro di averli visti, malgrado la spietata luce bianca.Per vedere una cosa bisogna capirla: la poltrona presuppone il corpo umano, le forbici l'atto diel tagliare. [...]  Il passeggero non vede lo stesso cordame che vede l'equipaggio.
Se vedessimo realmente l'universo lo capiremmo.
- Jorge Luis Borges - "There are more things"

sabato 22 ottobre 2011

SCIENZA ED ESOTERISMO. Due sentieri paralleli che si incontrano.

SCIENZA ED ESOTERISMO. Due sentieri paralleli che si incontrano.

Scienza ed esoterismo sono due approcci inconciliabili? 
A giudicare dai grandissimi scienziati che sono stati anche grandi esoteristi, si direbbe di no.
Il filosofo-mago è una figura tipica del mondo tradizionale. Il filosofo-mago era ed è uomo in perenne ricerca della conoscenza, uomo del dubbio, dunque disposto a percorrere qualunque strada per ottenerla contro ogni dogma, preconcetto e divieto… è l’Uomo che mangia il frutto della conoscenza nell’Eden.
Di Uomini di questo tipo ne sono sopravvissuti pochi al periodo dell’illuminismo, gradualmente mutato in positivismo, riduzionismo e materialismo dogmatico; ma tra questi pochi troviamo scienziati di grandissimo spessore, capaci di innovare radicalmente, e di fare progredire la conoscenza per l’umanità. Lo stesso Newton fu un grande alchimista e studioso di divinazione e numerologia, fatto tenuto nascosto per secoli ma venuto alla luce ormai da più di 50 anni anche grazie all’opera di conservazione della Royal Society e del suo più grande ammiratore il famoso economista sir Jhon Maynard Keynes.

L’esoterismo di questi grandi uomini del dubbio, non va però confuso con l’occultismo dei ben più numerosi ciarlatani che con i loro vagheggiamenti e le loro truffe hanno infangato la reputazione di tutto ciò che non è materiale.
Come precisò il noto esoterista Giuliano Kremmerz:
Oggi nell’ombra si cela pauroso il reato, il falso, l’inganno. Tutto ciò che è scienza non si nasconde in un tempio e non dice: temo la luce. La conoscenza di ogni uomo vero è un rigagnolo che ingrossa il mare delle conquiste del benessere umano” (Introduzione alla Scienza Ermetica)
Nel senso indicato da Kremmerz va dunque inteso l’esoterismo come “scienza”. Scienza della Luce e alla Luce non nell’ombra; l’ombra che è rifugio del “male” inteso come rallentamento del progresso dell’umanità.
Scienza "eso-", interiore, il cui oggetto va dunque cercato dentro ogni Uomo.
Una scienza che studiando fenomeni interiori ricerca il “logos” che in virtù del principio ermetico: “come è in basso, così è in alto” è allo stesso tempo “logos” dell’Uomo e “logos” del Cosmo.
Il “logos” è in tal senso da intendersi diversamente da una legge universale o da un algoritmo, oggetto della scienza positivista e riduzionista che ha la vana pretesa di riuscire a ridurre tutto ad un singolo elemento intellegibile
Il “logos” in questione è “complesso”, non “complicato, non può dunque essere circoscritto a qualcosa di intellegibile dalla mente umana. In termini cabalistici si può dire che l’”emergenza“ del complesso trova senso e spiegazione solo in “Kether”, cioè nella mente di Dio e non in quella dell’uomo. L’esplorazione esoterica verso il “logos” è dunque infinita esprimendo il tendere della conoscenza umana (finita) verso un cammino infinito per ricongiungersi alla mente di Dio.
La perenne incompletezza del cammino verso la conoscenza non vuol dire però che il cammino non esista e che non abbia senso. All’avanzare della conoscenza l’uomo si avvicina al Principio Supremo e da tale avvicinamento può ottenere capacità e potenze

L’”iniziazione” altro non è (se effettiva e valida) che l’inizio di tale cammino. Ciò che conta è il cammino, non il raggiungimento della meta.
Durante questo cammino l’iniziato può conseguire vari livelli di “illuminazione intesa nel senso che Platone dà al “mito della caverna”. Ma non vi è una sola caverna, una volta uscito dalla prima caverna all’inizio del suo cammino e proseguendo l’iniziato si rende conto di trovarsi in un’altra caverna da cui uscire… e cosi all’infinito.

E’ chiaro a questo punto che la scienza con il suo periodico uscire dalla “caverna del paradigma dominante” per trovarsi in un nuovo paradigma-caverna altro non è che un percorso verso la conoscenza, un percorso analogo a quello “iniziatico” ed esoterico; un percorso che non a caso è stato comune a quello di molti uomini di scienza. Purchè per scienza si intenda la ricerca della conoscenza dell’uomo del dubbio e non quella degli “Accademici petulanti (Giordano Bruno) che mantengono le catene nella grotta platonica, dediti alla dogmatica difesa di un paradigma, alla ricerca dell’esteriore senza l’interiore, dell’ombra e non della Luce.

di Gandolfo Dominici

sabato 15 ottobre 2011

Il "Diploma" dell'iniziato


"L'iniziato non ha nè diploma nè titolo. E gli iniziati non sono classificati gli uni rispetto agli altri. E' vero che il nostro tempo è l'idolatria dei diplomi che permettono talora all'incompetenza di agire nella totale impunità"
Cristian Jacq - il viaggio Iniziatico - Età dell'Acquario - p. 35

Come gestire il popolo - Lao Tzu

 "Non porre in alto i più capaci fa sì che il popolo non contenda, non dar valore ai beni difficili da ottenere fa si che il popolo non rubi, non mostrare cose desiderabili fa si che la mente del popolo non sia turbata.
Perciò il saggio lo governa svuotandone la mente e riempendone il ventre, indebolendone la volontà e rafforzandone le ossa, facendo sempre sì che il popolo sia senza sapere e senza desideri, e che coloro che sanno non osino agire.Praticando il non fare, non c'è nulla che non sia ben ordinato."
Lao Tzu - Il libro del Tao- vers. 3

IL NON-VALORE DELLA CONOSCENZA IN ITALIA

 "Pensando al futuro di mio figlio, sono giunto ad una triste conclusione.
IN ITALIA NON C'E' DOMANDA DI CONOSCENZA.
All'università insegniamo cose che la società, il mercato, le imprese non richiedono.
In Italia c'è domanda di ragionieri e non di commercialisti, di geometri e non di architetti, di idraulici, mastri, elettricisti e non di ingegneri idraulici, edili ed elettronici...Questa è la triste verità, confermata dai fatti, e chi si illude del contrario si trova a cozzare con la realtà prima o poi."
di Gandolfo Dominici

Razionalità e metafisica - Ilya Prigogine

 "Lo sviluppo scientifico sbocca allora in una vera e propria scelta metafisica, tragica e astratta; "l'uomo" deve scegliere fra la tentazione, rassicurante ma irrazionale, di cercare nella natura la garanzia dei valori umani, la manifestazione di un'appartenenza essenziale, e fra la fedeltà a una razionalità che lo lascia solo in un mondo muto e stupido"
Ilya Prigogine, Isabelle Strengers - La Nouvelle Alliance - 1976

Scienza E Coscienza Dal Punto Di Vista Sistemico.

Scienza E Coscienza Dal Punto Di Vista Sistemico.
Tratto da: Demetrio P. Errigo – Sentieri Sistemici. Dalla Filosofia alla Sistemica alla Tecnoscienza – Loffredo Editore – 2011 pp. 152-155.

Non esiste differenza tra scienza e coscienza e qui si cercherà di dimostrarlo. Esiste un sistema globale caratterizzato da una serie di sottosistemi ognuno dei quali a sua volta e composto da sottosistemi, ognuno dei quali...etc.
Il limite della decomposizione non è per il momento determinabile: chi pensa al modello standard, chi alla teoria delle stringhe, chi, d’altro canto, all’universo olografico e chi ad altro ancora. A ben osservare queste teorie
(per ora puramente speculative), pur avendo una vivibilità intrinseca e differenziante, in vero hanno un punto in comune: la reductio ad unum e la pluricomposizione della realtà. E i due termini del punto in comune (reductio ad unum e pluricomposizione) possono entrambi essere valutati o come inizio ricerca o come fine ricerca. Però si possono considerate esistenti simultaneamente entrambe le definizioni (inizio, fine) perché il procedere della visione globale umana avviene in termini fenomenici, quindi da uno stato valutativo intermedio tra i due. Chi osserva può da questo stato, indurre o dedurre ovvero assieme indurre e dedurre.
Una visione di questo tipo non reifica l’essenza ma valuta e giustifica un esserci. Infatti il nostro cervello è si creativo ma non nel senso di reificante, solo nel senso di raffigurante e di significante.
Ritorniamo al sistema iniziale con tutti i suoi sottosistemi a loro volta compositi. Ognuno di noi appartiene ad un sottosistema ed è a sua volta un sottosottosistema. Finora abbiamo parlato solo di sistema perché per sua definizione é costituito da un insieme strutturato, finito e numerabile di elementi, fra loro di natura omogenea. E’ per la presenza della struttura, che lo definisce, e degli elementi di insieme, in esso avvengono azioni e reazioni che determinano equilibri di tipo dina-
mico (caos). Anche tra sottosistemi connessi strutturalmente tra loro si definisce sistema ciò che li connette. Quindi anche in un sistema avvengono equilibri dinamici tra sottosistemi. Tutte queste situazioni caotiche generano la complessità del sistema (o del sottosistema). Allora, per il momento abbiamo stabilito che caos e complessità coesistono in modo essenziale, avendo entrambi definizioni ben precise.
Ed ora possiamo aggiungere che caos e complessità derivano dalla non linearità (cioè non la semplice proporzionalità) delle azioni (e corrispondenti reazioni) che nel caso “umano” si definiscono comportamenti, “pensieri, parole, opere ed omissioni”.
La non linearità dipende solo dal numero e dal grado delle interconnessioni tra i nostri sottosistemi: in ultima analisi dal nostro “io”. Da questo punto di vista possiamo dire che la nostra “macchina neurale” con tutti i suoi annessi e connessi (sistema immunitario, sistema endocrino, etc.) riproduce la quintessenza della complessità in cui il caos (equilibrio dinamico) rappresenta la confluenza di ogni vitalità elettromagnetica, termodinamica, elettrochimica: insomma biochimica.
Per poterci intendere fino a questo momento occorre perfezionare il concerto fondamentale, quello di sistema, con degli esempi concreti.
Un individuo appartiene ad un insieme di elementi-individuo e fra questi elementi, per la coesistenza, vengono introdotte delle norme, delle regole, cioè una struttura. L’insieme così strutturato diventa un sistema. Lo stesso individuo può relazionarsi in modo specifico per esempio con un altro generando così un altro insieme (in questo caso sottoinsieme) che potrebbe essere definito famiglia (da matrimonio o da convivenza) che essendo anch’esso regolato da leggi o norme diventa analogamente un sistema (in questo caso un sottosistema) a due elementi o a tre o più, a seconda della propria etnicità.
Lo stesso individuo può aderire a un altro sovrainsieme o per tipo di cultura o per tipo di opinioni politiche o per tipo di senso religioso o per tipo di senso morale. Ed anche questi insiemi avranno una loro struttura portante e pertanto anch’essi saranno dei sistemi. Allora uno stesso elemento singolo è in grado di appartenere a più sottoinsiemi (e quindi sottosistemi) e la sua psico-fisicità avrà connotazioni e colorazioni diversificate in funzione delle sue appartenenze. Il suo tipo di vita e le sue azioni e reazioni comportamentali saranno dettate anche dal tipo di appartenenza scelto o a volte imposto.
La complessità e le attività non lineari derivano proprio dall’appartenenza a questo numeroso ensemble di strutture che vincolano l’individuo liberandolo, nel contempo, dal suo isolazionismo. E l’adattamento o l’attività in sé, generano quello che si chiama proprio l’equilibrio dinamico, il caos, il continuo divenire e trasformarsi eracliteo.
Questo è un semplice discorso riferito all’umano. Ma analogo discorso vale per il mondo zoologico non squisitamente umano. E parimenti per il mondo vegetale o affine. Il discorso si fa un po’ più complicato per il mondo minerale. Ma è una questione di punti di vista e soprattutto di paradigmi interpretativi, su cui non interverro per non appesantire la sintesi. Infatti occorrerebbe tutto un discorso vibrazionale in cui la musica e la matematica giocano un ruolo fondamentale.
Per procedere, a questo punto si pone il problema del pensiero; cos’è, com’è, dov’è. Per fare ciò dobbiamo postulare l’esistenza di un connubio fondamentale corpo-pensiero che va molto al di là della teoria dell’identità che si è sperduta nella rincorsa dei rapporti mente-cervello.
La nostra fenomenicità è corpo e pensiero. Non solo la nostra, ma anche di chiunque o qualunque cosa che sia altro da noi. Sarebbe come ammettere che materia e pensiero sono due modi di essere dell’energia. Che noi stessi siamo energia, materia come energia condensata e che il pensiero e l’onda informativa che la circonda, che ci circonda, che contiene l’universo. Materia come un insieme di fermioni (partic-onde distinguibili), pensiero come insieme di bosoni (partic-onde indistinguibili), entrambi e contemporaneamente facenti parte di un tutto, un superspazio tensoriale in cui simmetria ed antimetria sono coesistenti, con loro proprie regole di cui noi intravediamo determinate specificità unicamente settoriali.
Allora, il tutto che ci circonda non è distinto da noi, perché anche noi siamo il tutto ed il tutto e all’interno di noi.
Noi siamo contemporaneamente parte e tutto, infinito e infinitesimo. Siamo il tempo, siamo anche nel tempo e ne siamo anche al di fuori. Costituiamo uno spazio ma ne siamo anche al di Fuori. Siamo limitatezza ed illimitatezza, siamo mortali ed eterni. Siamo ogni colore, siamo ogni loro somma e loro differenza. Siamo luce, ombra e vuoto. Siamo qualsiasi nota musicale ed assenza di vibrazione. Siamo assonanze e dissonanze e puro silenzio. Siamo isole e penisole e continenti. Siamo terra e onde del mare. Siamo il mondo, dentro questo mondo e fuori di questo mondo. Siamo strutture e funzioni. Siamo ciò che pensiamo. Siamo ciò che introiettiamo e ciò che emettiamo. Insomma noi siamo contemporaneamente parte e tutto, ma siamo anche il nulla. Solo con quest’ultima consapevolezza entra in campo la speranza. Speranza che non dipende molto dalla “Corona” o dalla “Terra”, ma anche da tutto ciò che sta in mezzo a questi due Chakra. E soprattutto tutto ciò che sta in mezzo origina il nostro senso religioso.
Solo la libertà ci consente di optare per un nostro adeguamento dogmatico-religioso per una nostra strada sacrale anideologica.
Come è facile dedurre da quanto sopra, anche se presentato in modo riassuntato, non esistono differenziazioni strutturali tra scienza e coscienza, ma solo funzionali e questo in qualsiasi sistema o parte di esso. Insomma sostanzialmente sono coesistenziali ed indivisibili come del resto qualsiasi altra definizione di qualsiasi altro contenitore.

lunedì 10 ottobre 2011

CRISTALLI DI NEVE


Siamo come i cristalli di neve: tutti hanno più o meno la stessa forma, ma non ne esistono due identici.

domenica 9 ottobre 2011

Il simbolismo dell'aquila di Julius Evola

Il simbolismo dell'aquila
di Julius Evola


Il simbolismo dell'aquila ha un carattere "tradizionale" in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è fra quelli che testimoniano un "invariante", cioè un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante son però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo dell'aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente "olimpico" ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti. Circa il carattere "olimpico" del simbolismo dell'aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest'animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario-romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. A Zeus fu connesso a sua volta un altro simbolo, quello della folgore, cosa che va ricordata, perché vedremo che per tal via esso va a completare non di rado il simbolismo stesso dell'aquila. Ricordiamo anche un altro punto: secondo l'antica visione aria del mondo, l'elemento "olimpico" si definisce soprattutto nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico. 

Ora, proprio con la folgore Zeus abbatte, nel mito, i titani Negli Arii, che vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime, vediamo peraltro aquila e folgore come simboli e insegne che racchiudono, per tal via, un significato profondo e generalmente trascurato. Secondo l'antica visione aria della vita, l'immortalità è qualcosa di privilegiato: non significa semplice sopravvivenza alla morte, ma partecipazione eroica e regale allo stato di coscienza che definisce la divinità olimpica. Fissiamo alcune corrispondenze. La veduta ora accennata circa l'immortalità è anche propria alla antica tradizione egizia. Solo una parte dell'essere umano è destinata ad una esistenza eterna celeste in stati di gloria - il cosidetto Ba. Ora, questa parte nei geroglifici egizi è raffigurata appunto come un'aquila o uno sparviero (per le condizioni di ambiente, lo sparviero qui è il surrogato dell'aquila, l'appoggio più prossimo offerto dal mondo fisico per esprimere la stessa idea). È sotto forma di sparviero, che nel rituale contenuto nel Libro dei Morti l'anima trasfigurata del morto incute spavento agli stessi dèi e può pronunciare queste parole superbe: 
"Io son sorto a similitudine di sparviero o di aquila divina ed Oro mi ha fatto partecipe secondo simiglianza dello spirito suo, a che prenda possesso di quel che nell'altro mondo corrisponde ad Osiride". 
Questo retaggio superterreno corrisponde esattamente all'elemento olimpico. Infatti nel mito egizio Osiride è una figura divina che corrisponde allo stato primordiale "solare" dello spirito, il quale, dopo aver subito alterazione e corruzione (uccisione e dilaceramento di Osiride), viene restaurato da Oro. 


Il morto consegue l'indiamento immortalante partecipando della forza restauratrice di Oro, che riconduce ad Osiride, che provoca il "risorgere" o il "ricomporsi" di Osiride. A questo punto, è facile constatare corrispondenze molteplici di tradizioni e di simboli. Nel mito ellenico, si comprende, a tale stregua, che da "aquile", esseri, come Ganimede, siano stati rapiti al trono di Zeus. Per mezzo di aquile, nell'antica tradizione persiana, il re Kei-Kaus tentò prometeicamente di innalzarsi al cielo. 

Nella tradizione indo-aria è l'aquila che porta ad Indra la mistica bevanda che lo costituirà a signore degli dèi. La tradizione classica qui aggiunge un particolare suggestivo: per essa, benché inesattamente, l'aquila valeva come l'unico animale che poteva fissare il sole senza abbassare gli occhi. Ciò chiarisce la parte che l'aquila ha in alcune redazioni della leggenda prometeica. Prometeo vi appare non come colui che è veramente qualificato per far proprio il fuoco olimpico, ma come colui, che, restando di natura "titanica", vuole usurparlo e farne cosa non più da "dèi", ma da uomini. Per pena, nelle redazioni della leggenda cui alludiamo, il Prometeo incatenato ha il fegato continuamente divorato da un'aquila. L'aquila, animale sacro del Dio olimpico, associato alla folgore stessa che abbatte i titani, ci appare qui come una figurazione equivalente allo stesso fuoco, che Prometeo voleva far suo. Si tratta cioè di una specie di castigo immanente. Prometeo non ha la natura dell'aquila, che può fissare impunemente e "olimpicamente" la luce suprema. La stessa forza che volle far sua, diviene il principio del suo tormento e del suo castigo. E qui si aprirebbe una via per comprendere la tragedia interiore di vari esponenti moderni della dottrina di un superuomismo titanico, ossessi e vittime della loro stessa idea, partendo da Nietzsche e da Dostojewskij, e con particolare riguardo, anche, agli eroi caratteristici dei romanzi di quest'ultimo. Tornando al mondo del mito ano, troviamo nell'antica tradizione indù una variante di quello prometeico. Agni, sotto forma di aquila o di sparviero, strappa un ramo dell'albero cosmico, ripetendo il gesto, che nel mito semita Adamo compì per "rendersi simile agli dèi". Agni, che a sua volta è una personificazione del fuoco, viene colpito. Dalle sue piume cadute al suolo sorge però il seme di una pianta che produrrà il "soma terrestre". Ma il soma è un equivalente della ambrosia, è la sostanza simbolica che indìa, che propizia una partecipazione allo stato "olimpico". La struttura del mito ario, benché in forma più involuta, ripete quella che già abbiamo analizzata nel mito egizio (offuscamento di Osiride, resurrezione per mezzo di Oro). Si può parlare di un tentativo prometeico fallito in un primo tempo, poi "rettificato" e fatto seme di una giusta realizzazione dello stesso fine. Nella tradizione irano-aria l'aquila figura spesso come una incarnazione della "gloria" dello hvarenô che, come in altra occasione ricordammo, per quelle razze non valse come una astrazione, bensì come una forza mistica e un potere reale dall'alto, che scende sui sovrani e sui capi, li fa partecipi della natura immortale e li testimonia con la vittoria. 

Questa "gloria" aria, personificata dall'aquila, non sopporta lesioni dell'etica virile propria alla tradizione mazdea. Così il mito riferisce, che sotto forma di aquila essa si diparti dal re Yima allorché questi si contaminò con una menzogna. Sulla base di siffatte corrispondenze di significato e di simboli la parte che in Roma antica ebbe l'aquila risulta in una particolare luce. Il rito dell'apoteosi imperiale romana è una prima testimonianza ed una precisa conferma dell'aderenza della romanità all'ideale olimpico. In tale rito proprio il volo di un'aquila dalla pira funeraria simboleggiava infatti il trapasso allo stato di "dio" dell'anima dell'imperatore morto. Ricordiamo i particolari di questo rito, che fu ripetuto sull'esempio di quello originario celebratosi alla morte di Augusto. Il corpo dell'imperatore morto veniva racchiuso in una bara coperta di porpora, portata da una lettiga d'oro e d'avorio. Veniva deposto in una pira costituita al Campo di Marte e circondata da sacerdoti. Si svolgeva allora la cosiddetta decursio, su cui subito diremo. Dato fuoco alla pira, un'aquila si liberava dalle fiamme, e si pensava che in quell'istante l'anima del morto simbolicamente s'innalzasse verso le regioni celesti, per esser accolta fra gli Olimpici. La decursio, cui ora si è accennato, era la corsa di truppe, di cavalieri e di capi intorno alla pira dell'imperatore, sulla quale essi gittavano le ricompense ricevute per il loro valore. Anche in questo rito si cela un significato profondo. Era credenza aria e romana, che nei capi fosse la vera forza decisiva per la vittoria; cioè, non tanto nei capi come persona, quanto nell'elemento sovrannaturale, "olimpico" ad essi attribuito. Per questo, nella cerimonia romana del trionfo il duce vincitore assumeva i simboli del dio olimpico, di Jupiter, e al tempio di questo dio andava a rimettere i lauri della vittoria, volendo con ciò esprimere il vero autore della vittoria, ben distinto dalla sua parte semplicemente umana. Nella decursio avveniva una "remissione" analoga: i soldati e i capi restituivano le ricompense che ricordavano il loro coraggio e la loro forza vincitrice all'imperatore come a colui che, nella sua potenzialità "olimpica", ora sul punto di liberarsi e di transumanarsi, ne era stato la vera origine. Ciò ci conduce ad esaminare la seconda testimonianza dello spirito "olimpico" della romanità, parimenti controsegnato del simbolismo ario dell'aquila. 

Era tradizione classica che colui, su cui si posasse l'aquila fosse predestinato da Zeus ad alti destini o alla regalità, volendosi con ciò indicare il presupposto "olimpico" della legittimità degli uni o dell'altra. Ma era parimenti tradizione classica, e poi specificamente romana, che l'aquila fosse segno di vittoria, col che, parimenti, vengono in risalto i presupposti "olimpici" della concezione stessa della lotta e della vittoria, cioè l'idea, che attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del dio di luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e "barbariche", era preannunciata dall'apparire dell'animale stesso di Zeus, dall'aquila. Ecco la base per comprendere adeguatamente, in relazione a significati profondi d'origine tradizionale e sacrale, e non a vuote allegorie, la parte che l'aquila aveva fra le insegne degli eserciti romani, presso signa e vexilla, fin dalle origini. Fin dall'epoca repubblicana l'aquila fu in Roma come l'insegna delle legioni - veniva detto: "un'aquila per legione e nessuna legione senz'aquila". In particolare, l'insegna era costituita dall'aquila con le ali spiegate e, in più, con una folgore fra gli artigli. Vien così confermato rigorosamente il simbolismo "olimpico" già detto: presso all'animale sacro di Giove è il segno della sua stessa forza, di quella folgore, con la quale egli combatte e stermina i titani. 

Dettaglio degno di rilievo, le insegne delle truppe barbariche non avevano aquila: nei signa auxiliarium troviamo invece animali sacri o "totemici", rifacentisi ad altre influenze, quali il toro o l'ariete. Solo in un periodo successivo questi segni s'infiltrarono nella stessa romanità associandosi all'aquila e dando luogo, spesso, ad un simbolismo doppio: il secondo animale aggiunto all'aquila nelle insegne di una data legione stava allora in relazione con una caratteristica di essa, mentre l'aquila si rifaceva al simbolo generale di Roma. Nel periodo imperiale, peraltro, l'aquila, da insegna militare, divenne spesso simbolo per lo stesso Imperium. Noi sappiamo la parte che nella storia successiva il simbolo dell'aquila ha avuto nei popoli nordici e germanici. Questo simbolo sembra quasi aver abbandonato per un lungo periodo il suolo romano ed esser trasmigrato fra le razze germaniche, tanto da apparire a molti come un simbolo essenzialmente nordico. Ciò non è esatto. Si è dimenticata l'origine dell'aquila che figura ancora oggi (1941 - n.d.r.) come emblema della Germania, così come essa fu anche emblema dell'Impero austriaco, ultimo erede del Sacro Romano Impero. Quest'aquila germanica è semplicemente l'aquila romana. 

Fu Carlomagno nell'800, che nel punto di dichiarare la renovatio romani imperii ne riprese il simbolo fondamentale, l'aquila, e ne fece l'emblema del suo Stato. Storicamente, è dunque null'altro che l'aquila romana quella che si è conservata fino ad oggi come simbolo del Reich. Ciò non impedisce però che, da un punto dì vista più profondo, superstorico, nel riguardo si possa pensare a qualcosa di più che ad una semplice importazione. L'aquila infatti nella mitologia nordica figurava già come uno degli animali sacri ad Odino-Wotan e come questo animale fu aggiunto nelle insegne romane delle legioni, così esso apparve anche nei cimieri degli antichi capi germanici. Si può dunque concepire che mentre Carlomagno nell'assumere l'Aquila a simbolo del risorto impero aveva essenzialmente in vista Roma antica, egli simultaneamente, senza rendersene conto, riprendeva anche un simbolo dell'antica tradizione ario-nordica, conservatasi solo in forma frammentaria e crepuscolare fra i vari ceppi del periodo delle invasioni. In ogni modo, nella storia successiva l'aquila finì con l'avere un valore semplicemente araldico e il suo significato simbolico e morale più profondo e originario fu dimenticato. Come molti altri, divenne un simbolo che sopravviveva a sé stesso e che quindi fu perfino suscettibile a servir da base ad idee molto diverse. Sarebbe quindi assurdo supporre la presenza, sia pur "sonnambolica", di concezioni, come quelle qui ricordate, dovunque oggi si siano viste aquile in segni ed emblemi europei. Le cose potrebbero stare diversamente per noi, eredi dell'antica romanità, e poi pel popolo, che oggi ci sta a fianco, erede dell'imperio romano-germanico. 

La conoscenza del significato originario del simbolismo ario dell'Aquila, risorto emblema di entrambe le nostre genti, potrebbe controsegnare anzi il significato più alto della nostra lotta e connettersi con l'impegno, che in questa si ripeta, in una certa misura, la stessa vicenda, nella quale l'antica gente aria, nel segno olimpico ed evocando la forza stessa olimpica sterminatrice di entità oscure e titaniche, potè sentirsi come la milizia di influenze dall'alto ed affermare un superiore diritto e una superiore funzione di dominio e di ordine.

fonte Simboli della Tradizione Occidentale

sabato 8 ottobre 2011

IL PROBLEMA DI EL FAROL

El Farol é un bar sulla Canyon Road, a Santa Fe, dove tutti i giovedì sera si esibiva un gruppo che suonava musica irlandese. Essendo nato e cresciuto a Belfast, W. Brian Arthur, economista presso il Santa Fe Institute, era particolarmente interessato ad andare ad ascoltare il gruppo che, con la musica, lo riportava ogni settimana al tempo della sua infanzia. Ma era decisamente meno entusiasta di assistere al concerto al pensiero della miriade di zoticoni ubriachi presenti che spingeva e sgomitava.
Tentando di decidere se recarsi o meno a El Farol tutti i giovedì sera, Arthur formulò quello che può essere definito “il problema di El Farol”. Esso rappresenta un esempio prototipico di ciò che nel linguaggio odierno viene chiamato “sistema complesso adattivo".
Ecco come funziona.
Supponiamo che a Santa Fe vi siano 100 persone che, come Arthur, vorrebbero andare a El Farol ad ascoltare la musica. Ma nessuno di loro vuole andarci se il bar è troppo affollato. In particolare, ipotizziamo che tutte e 100 le persone sappiano quale é stata l’affluenza al bar nelle settimane precedenti. Per esempio, il numero di presenze registrate potrebbe essere di: 44, 78, 56, 15,23, 67, 84, 34, 45, 76, 40, 56, 23 e 35. A questo punto, ciascun individuo utilizza indipendentemente un qualche metodo di previsione per stimare quante persone si recheranno al bar la settimana seguente.
Previsioni caratteristiche di questo tipo potrebbero essere:
1) lo stesso numero della settimana precedente (35);
2) un’immagine speculare intorno a 50 delle presenze della settimana precedente (65);
3) una media arrotondata per eccesso delle presenze registrate nelle ultime quattro settimane (39);
4) lo stesso numero di due settimane prima (23).
Supponiamo che ciascuna di queste persone decida, in modo indipendente, di andare al bar se la sua previsione darà come risultato che vi si recheranno 60 persone; in caso contrario, resterà a casa. Per elaborare questa previsione, ciascun individuo ha a disposizione una serie di metodi ed utilizza quello attualmente più preciso per pronosticare le presenze della settimana successiva a El Farol. Una volta effettuata la previsione e, di conseguenza, presa la decisione, le persone convergono al bar e il giorno successivo viene pubblicato sul giornale il nuovo numero di presenze.
Ciascuno aggiorna quindi la precisione dei metodi di previsione a propria disposizione; il tutto si ripete la settimana successiva. Questo processo dà origine a ciò che può essere definito come “ecologia” dei metodi di previsione, nel senso che ogni volta un determinato sottoinsieme di tutti i possibili metodi di previsione è “vivo”, ovvero viene al momento utilizzato almeno da una persona; tutti gli altri metodi di previsione sono “morti”.
Con il passare del tempo, tuttavia, alcuni metodi di previsione nascono ed altri muoiono. E interessante sapere se gli appassionati di musica sceglieranno alla fine alcuni metodi di previsione “immortali” oppure se, al contrario, i buoni metodi di previsione vanno e vengono proprio come le mode per altri aspetti della vita. Il problema che ciascuna persona deve affrontare, a questo punto, consiste nel prevedere il numero di partecipanti nel modo più preciso possibile, sapendo che la reale affluenza sarà determinata dalle previsioni fatte dagli altri.
Questo porta immediatamente ad un regresso del tipo “Io penso che tu pensi che essi pensano...”. A questo proposito, supponiamo che qualcuno si convinca che si presenteranno 87 persone. Se questa persona presume che gli altri siano altrettanto intelligenti, sarà di conseguenza naturale presumere che anche questi ultimi riterranno che 87 sia una buona previsione. A questo punto pero resteranno tutti a casa, inficiando la precisione della stessa previsione! Quindi, nessuna previsione comune o condivisa può in alcun modo essere valida; in breve, la logica deduttiva è destinata a fallire. Dal punto di vista scientifico, il problema si riduce a come creare una teoria in grado di spiegare il modo in cui si decide di andare o no a El Farol il giovedì sera, e le dinamiche che tali decisioni innescano.

Tratto da: J. L. Casti - Complesità, origine e flusso degli eventi , in Conoscere la Complessità - A. Spaziale (a cura di)- Bruno Mondadori - 2009 - pp. 19-21

mercoledì 5 ottobre 2011

Se fossi un aratore...

"Se fossi aratore, giardiniere o sarto, nessuno farebbe caso a me, mi si osserverebbe poco, mi si biasimerebbe raramente, potrei facilmente piacere a tutti .
Ma poichè delimito il campo della natura, provvedo al nutrimento dell'anima, incoraggio la cultura dello spirito e sono un fine conoscitore delle coltri dell'intelletto, chi mi scorge mi minaccia, chi mi scruta mi assale, chi giunge alla mia altezza mi morde e chi mi comprende mi divora".
Giordano Bruno

La morale dell’ornitorinco

L’ornitorinco è un essere paradossale, forse addirittura il più paradossale di tutti gli esseri. Basta il suo aspetto per sfidare la povera idea di normalità e spiegare perché sia diventato, insieme all’oritteropo, l’esemplare più stravagante del bestiario del capitano Haddock durante i suoi scatti d’ira. Questo animale, fisicamente inverosimile, sbucato direttamente dall’impossibile, è un incubo per tassonomisti. Sembra essere sopravvissuto alle regole di selezione più implacabili, con le sue zampe da anatra dotate di unghie e secernenti veleno, l’assenza di collo, il becco così curioso, il pelame cosi morbido e la coda cosi piatta. La sua ambiguità sfiora l’eccesso. Voci provenienti dall’Australia dicono però che sia timido, forse a causa del disagio creato dalla diversità dei prestiti contratti dalla sua anatomia.
Quando il primo esemplare di ornitorinco impagliato arrivò al British Museum, nel 1798, si credette a un imbroglio. Qualche genio dell’imbalsamazione si era forse divertito a cucire un becco d’anatra sulla testa di un quadrupede? Ma ci si dovette arrendere all’evidenza. Non vi era alcun trucco. Quell’essere inclassificabile esisteva eccome.
Poiché e difficile ammettere che qualcosa di sconosciuto possa essere radicalmente nuovo, si cercò subito di inserire l’ornitorinco in una categoria già nota. Alcuni, volendo fare di lui un mammifero, si rifiutarono di ammettere che potesse deporre le uova. Altri, volendo fare di lui un oviparo, negarono l’esistenza delle mammelle (che nella femmina sono molto discrete) e del latte (che sparge nell’acqua per nutrire i piccoli). Finalmente, dopo ottant’anni di discussioni, l’esistenza delle mammelle e delle uova poté essere rigorosamente dimostrata e si dovette concludere che l’ornitorinco è sia un mammifero (come le mucche), sia un oviparo (come i rettili).
Se era paradossale, lo era dunque solo relativamente alle vecchie categorie considerate immutabili.
La morale di questa storia fa pensare a ciò che è accaduto all’epoca della crisi della fisica quantistica, negli anni Venti e Trenta, dopo che i fisici hanno scoperto che le leggi della fisica classica non erano in grado di spiegare il comportamento degli atomi. Fino ad allora, i fisici avevano distinto due tipi di entità fondamentali: da una parte i corpuscoli, che sono delle specie di biglie microscopiche, dall’altra le onde che si propagano nello spazio un po’ come il movimento di un’onda sul mare. Quando risultò che le particelle quantistiche sembravano non poter essere assimilate a oggetti perfettamente localizzati nello spazio, alcuni ebbero il riflesso di identificarli con delle onde, altri tentarono di ridurre la loro rappresentazione a quella di corpuscoli, mentre qualcuno avanzo che sono una sorta di collage di queste due entità.
In realtà, gli oggetti che considera la fisica quantistica trascendono la classificazione tradizionale. Non sono né onde, né corpuscoli, ma “qualcos’altro”: sparsi nello spazio finché non si cerca di misurarne la posizione, appaiono ben localizzati quando viene fatta una misurazione. Combinando cosi l’aspetto ondulatorio e corpuscolare senza ridursi ad alcuna di queste due categorie, sono in un certo senso gli “ornitorinchi della fisica classica”.
A proposito, sappiamo perché gli ornitorinchi, essendo così particolari, sono come sono?
La loro esistenza obbedisce a una necessità?
Sono il risultato di un miracolo?
O sono il prodotto del caso?
Erano già in progetto nel brodo primordiale al quale si riduceva l’Universo nei suoi primi istanti?
Ma dopotutto, queste stesse domande possono essere poste anche a proposito dell’uomo e persino dell’intero Universo.
Quest’ultimo avrebbe potuto fare a meno di noi?

Tratto da E. Klein -
L'uomo invisibile e altri misteri scientifici -
Barbera Editore - pp. 43-45

domenica 2 ottobre 2011

AYIN: IL NULLA E LA CONOSCENZA

Ayin significa "Nulla" ed è un concetto importante nella Kabbalah e filosofia chassidica . E 'in contrasto con il termine Yesh ("qualcosa / esistenza / essere / è").
Secondo gli insegnamenti della Kabbalah, prima che l'universo fosse creato c'era solo Ayin. La Sephirah Kheter, la volontà divina, è l'intermediario tra l'Ein Sof  e Chokmah. Kheter è una rivelazione suprema dell'Ein Sof, che trascende le Sephirot manifeste. Kheter non può essere conosciuta dal pensiero uman, essa non è manifesta, dunque l'Uomo non può arrivare a comprendere i motivi della creazione e del Divino Nulla 
Dunque di fronte a Dio nessuno è sapiente e saggio.Questo è ciò che la Kabbalah indica mediante il termine Ayin = Nulla = Dio. Dio è un Nulla per chi vuole afferrarlo, sfugge indefinitamente alla umana comprensione. E' troppo complesso ed è infinito, la mente umana non può che vederne le manifestazioni.
Pertanto su Dio l’erudito non è sapiente perchè Dio è Ayin, Nulla e il Nulla non può essere conosciuto, sfugge al metodo scientifico della scienza umana. dio è Inarrivabile. Egli ci pone su sentieri sconosciuti e fa si che li possiamo percorrere, ma il concetto di Ayin ci rende consci che qualunque sentiero porta al nulla perchè Dio è  Nulla.
Questo Nulla non va neanche inteso come un etere o un campo akashico; esso è cosa diversa e causale rispetto alla materia informe che compone l'universo secondo le antiche dottrine esoteriche 
Ma Dio è anche l'Essere; dunque per essere è necessario essere consapevoli di non essere.

Dov Baer, maestro chassidico del XVIII secolo nel Maggid Devarav le-Ya'aqov ci insegna:
"Pensa a te stesso come Nulla e scordati completamente di esistere. Quando vi sarai riuscito, trascenderai il tempo innalzandoti al mondo delle idee, dove ogni cosa è simile all'altra: la vita e la morte, il mare e la terra. Non vi riuscirai, invece, se sei legato alla materia del mondo. Se pensi a te stesso come a qualcosa di reale, allora il divino non potrà compenetrarti, perché il divino è infinito. Nessun vaso può contenere il divino, a meno che tu non veda te stesso come Nulla".
di Gandolfo Dominici