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martedì 31 maggio 2011

I FEDELI D’ AMORE

L’ Ordine Iniziatico dei Fedeli d’ Amore è scomparso in Occidente dalla fine del medio Evo, vuoi perché i suoi membri hanno scelto d’emigrare in paesi del Medio Oriente, in Siria o in Egitto, vuoi perché, numericamente pochi, alla fine hanno scelto la clandestinità più rigorosa. 
Esistono comunque delle prove che tale Ordine si è semplicemente “nascosto” e che resta vivo in Occidente
persino fino ai nostri giorni. Naturalmente l’Ordine non esiste più come Ordine, perché dal Medio Evo in poi si sono esplicitati solo casi isolati, ovvero esperienze individuali. 
Ma ci si può interrogare su cosa significhi essere un fedele d’amore, adesso che l’Ordine che li riuniva ha palesemente smesso di esistere? 
In altre parole, essere un fedele d’amore significa, ai nostri giorni, l’appartenere ad un Ordine costituito come tale, con la sua gerarchia, i suoi riti iniziatici e il suo linguaggio segreto? 


Renè Guènon stesso mette in guardia contro questa confusione a proposito dell’analogo caso dei Rosa+Croce : 
“Il termine di Rosa – Croce è il significato proprio di un grado iniziatico effettivo, il cui possesso, evidentemente, non è necessariamente legato al fatto di appartenere ad una specifica organizzazione definita”. 
E’ lo stesso per ciò che concerne i fedeli d’amore.  Quando si parla della fedeltà d’amore bisogna dunque tenere ben presente certamente un Ordine antico scomparso di cui sono noti alcuni rappresentanti
che hanno lasciato delle Opere Letterarie : Dante, Cavalcanti, ma anche una via e un modo di realizzazione spirituale che alcuni individui, senza dubbio rari, hanno intrapreso dopo che si è “occultato”, in condizioni, d’altro canto, tanto misteriose quanto lo erano all’epoca in cui questo Ordine esisteva: Novalis, Raffaello. 
Ciò che in effetti distingue l’Ordine dei Fedeli d’Amore è la sua disciplina dell’Arcano, il suo “segreto”, il che spiega perché i suoi membri hanno lasciato così poche tracce; tranne, naturalmente, l’opera di Dante. 
Bisogna  penetrarne i Misteri.



Man mano che il fedele d’amore progredisce nella sua esperienza amorosa si muove nell’ambito di quell’Oriente che percorre da un capo all’altro. Nel corso di questa peregrinazione, che si compone di tutte le vicissitudini che formanonl’amore umano, effettivamente è la persona amata che si trasfigura fino alla “illuminazione” dello stesso fedele d’amore, ciò costituisce la “visione dell’Angelo”, perché 
“l’amore tende alla trasfigurazione della figura terrestre amata, avvicinandola alla Luce affinché ne faccia sbocciare tutte le potenzialità sovraumane, fino ad investirla della funzione teofanica dell’Angelo”.
L’amore spirituale è quello che si offre all’ammirazione secondo la dottrina o la religione dei Fedeli d’Amore. Ma ben presto il Fedele d’Amore viene preso da un altro amore, che è “l’amore intellettuale”, 
“quando questo intelletto progredisce sotto la protezione dell’anima pensante, nel mondo delle anime”.
E’ qui che si trova l’inizio dell’amore divino, “che è la vetta delle vette”.
Di ciò che chiamiamo “illuminazione”, “visione dell’Angelo”, i fedeli d’amore ne fanno esperienza in modo soggettivo e singolare, ma sempre con modalità identiche: apparizione di un essere di bellezza trasfigurata che assomiglia all’amatissima o visione dell’amatissima sotto le spoglie di un angelo che le assomiglia. In entrambe i casi si tratta proprio della figura teofanica di cuil’amatissima è l’annunciazione.



Dante ci racconta, nella sua Vita Nova  che un giorno che è “seduto e tutto assorto da qualche parte”, sente nascere nel suo cuore un tremito e gli sembra che Amore gli dica, con grande allegria : 
“pensa a benedire il giorno in cui ti ho preso, perché lo devi”. 
“E in verità, continua Dante, sentivo il mio cuore così gioioso che non mi pareva fosse il mio, da tanto che era nuovo il mio stato. E poco dopo che il cuore mi ebbe detto queste parole con linguaggio d’amore, vidi venire verso di me una gentile dama,di rinomata bellezza”. 
Il nome di questa dama è Giovanna, ma il suo soprannome è Primavera.
Guardando dietro di lei – continua Dante – vidi venire l’ammirevole Beatrice. Queste dame passarono vicino a me, una dopo l’altra, e mi sembrò che Amore mi dicesse nel mio cuore : la prima è chiamata Primavera solo a causa di questa sua venuta di oggi, perché sono stato io a spingere colui che le ha dato questo nome a chiamarla Primavera che vuol dire prima verrà, il giorno in cui Beatrice si mostrerà al suo fedele. E se inoltre vuoi considerare anche il suo nome originale, è più che dire che verrà prima poiché il suo nome Giovanna deriva da quel Giovanni che precedette la Vera Luce dicendo: Io sono la voce che grida nel deserto, preparate la via del Signore. Mi sembrò che mi dicesse ancora queste parole : E chi volesse vedere con ancor più penetrazione chiamerebbe questa Beatrice Amore, tanto è grande la sua somiglianza con me”.
L’ “illuminazione” dei fedeli d’Amore è dunque vedere l’Angelo, è contemplare la giovane donna che assomiglia alla propria anima sotto la sua forma teofanica, ed è anche vedere il volto di bellezza dell’Essere divino di cui il volto trasfigurato dell’essere amato porta i tratti. 
Ma veder l’Angelo è anche riconoscere il Maestro Interiore che investe il fedele d’amore della sua dignità ed è comprendere che egli è il proprio Testimone in Cielo. Ora, questo maestro porta appunto i tratti “annunciatori” del volto dell’amatissima



E’, infine, vedere il volto dell’Amico, sotto le apparenze di Sophia, della Sapienza cristica o della Sapienza divina, secondo la parola di Jacob Boheme :
“la Sapienza divina è la Vergine eterna, non la donna, è la purezza immacolata e la castità, ed appare come l’immagine di Dio e l’immagine della Trinità”.
Questo volto che è la bellezza nascosta dell’essere amato e che è anche il volto dell’iniziatore, del Maestro Invisibile, è lo stesso volto che permette di vedere l’Angelo, il volto del Maestro Interiore, dell’Amico, che è anche il volto di Dio stesso, la faccia divina che mostra al fedele d’amore, quando questi vede la bellezza dell’essere amato, tale e quale come la vede Dio. E’ quindi sempre lo stesso volto, visto sia con gli occhi dello spirito :amore divino, sia con gli occhi dell’anima: amore spirituale. 
A questo livello, dove la sapienza divina si manifesta sotto le apparenze di un Angelo di forma umana, “conoscersi è conoscere il proprio Signore”, cioè il Dio che si manifesta, il proprio Signore.
Ma esiste una tappa supplementare in questa conoscenza di sé,più intima, anche meno comunicabile, che è quella che sperimentano i Fedeli d’Amore quando la figura dell’Imam si sovrappone a quella del Cristo : “colui che conosce il suo Imam, conosce il suo Signore”. Tuttavia questa tappa appartiene al “segreto” dei Fedeli d’Amore. Se ne può dire soltanto questo : 
“è nel segreto del cuore che nasce l’Amore. Quando ne sono presi, i Fedeli d’Amore dissimulano il loro segreto, lo depositano nel loro cuore come un tesoro nascosto, ed è nel più profondo dell’anima che contemplano il volto dell’Amata.Non esiste, pertanto, amore fedele se non vissuto segretamente : sono allora due cuori uniti da un duplice segreto : il loro amore clandestino ed il Segreto del loro Amore”

La “chiamata”, ovvero la turbolenza dello Spirito, per i Fedeli d’Amore prende di solito le sembianze dell’amore umano, che diventa il punto di partenza dello sviluppo spirituale del futuro Iniziato.
E’ questo il caso del primo incontro con Beatrice, per Dante. La “chiamata” viene quindi effettuata con l’intrusione nel mondo quotidiano (mondo occidentale) di qualcosa che proviene dall’orizzonte (oriente) del mondo visibile. Quando il futuro Iniziato prende coscienza di questo “orizzonte”, si
mette in “cammino”, ed è un cammino verso la Luce.
Non ha ancora alcun Maestro, ma ha la fede in ciò che ha sentito e capito della chiamata; è un movimento volontario, una aspirazione dell’anima che lo spinge a camminare verso questo Oriente. Ma i pericoli sono notevoli e senza un Maestro il cammino diventa impraticabile.
Nel Medio Evo l’Iniziazione sarebbe stata conferita da un Maestro “Visibile”, appartenente all’Ordine, ma i documenti relativi mancano completamente e, se ci si attiene alle esperienze relative ai racconti dei Fedeli d’Amore, sia in Occidente che in Oriente, si potrebbe anche dubitare dell’esistenza di una tale Iniziazione.
E’ conosciuto che esistono, in Oriente, dei Maestri visibili o invisibili che appartengono a genealogie spirituali, che sono la causa del come, nel Medio Evo, gli Ordini Esoterici cristiani abbiano potuto entrare in relazione con gli omologhi ordini orientali.
E’ evidente un certo “incontro” dell’ Oriente con l’ Occidente, vissuto nel segreto del cuore, che autorizza l’Iniziato ad entrare in contatto col suo Maestro Interiore e, di conseguenza, a progredire verso gli stati superiori dell’Essere. E’ così che è possibile conoscere il proprio Signore.


La “Vita Nova” di dante descrive molto precisamente le diverse tappe dell’iniziazione alla Fedeltà d’ Amore e dell’ Illuminazione che dà accesso all’amore appassionato o di passione che è l’amore dei Fedeli d’Amore.
All’origine di ogni Iniziazione all’Ordine dei Fedeli d’Amore si trova un’esperienza amorosa che è punto di partenza di uno sviluppo spirituale nel corso del quale l’amore diventerà un Amore di Passione. Ma questo sviluppo resta riservato ad un piccolo numero di adepti : 
“Amore non apre a chiunque la via che conduce a Lui”.
Come per ogni Iniziazione l’essere che è stato preso ne deve manifestare la disposizione dell’Anima. Ma dopo che l’Amore è venuto a constatare che vi sono le attitudini 
“invia a lui Nostalgia che è la sua confidente e la sua delegata, affinché costui purifichi la sua dimora e non vi faccia entrare nessuno”.
Si tratta quindi di una prima tappa nello sviluppo personale dell’essere sinceramente preso che è quella dell’Iniziazione. In seguito 
“bisogna che Amore faccia il giro della dimora e scenda fino alla cella del cuore. Distrugge alcune cose, ne costruisce delle altre, fa passare per tutte le varianti del comportamento amoroso”.
E’ al termine di questa seconda tappa che si produce l’Illuminazione che è ciò che simbolizza il “cuore gentile” secondo Dante, cioè 
“il cuore purificato, dunque vuoto di tutto ciò che concerne gli oggetti esteriori e per ciò stesso reso atto a ricevere l’Illuminazione interiore”. 
Allora, Amore 
“si decide a recarsi alla corte della Bellezza”; 
in questa ultima tappa l’essere che è stato preso dovrà conoscere “le tappe e i gradi per i quali passano i Fedeli d’Amore” e soprattutto dovrà “dare il suo assenso totale all’Amore”.
E’ a questa condizione che l’Iniziato diviene un Fedele d’ Amore ed “è solo dopo di ciò che verranno date le visioni meravigliose”.


Fonte: http://www.massoneria.oriente.civitanovamarche.org/tavole/2009/i_fedeli_d_amore.pdf

lunedì 30 maggio 2011

Il mito della biga alata di Platone

 Platone parla del mito come di un aiuto alla Ragione quando questa deve affrontare argomenti – come quello della natura dell’anima – che sfuggono a una trattazione rigorosamente razionale. La natura dell’anima, quindi, è descritta attraverso uno dei miti piú famosi: quello della “biga alata”, in cui l’auriga e i due cavalli rappresentano gli elementi dell’anima “in azione”. Parla Socrate, che riferisce un discorso del poeta Stesicoro.

Platone Fedro, 246 a-249d
1    [246 a] [...] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi [b] sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme [c] sempre differenti. Cosí, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, [d] senza averlo mai visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima. Ed è press’a poco in questo modo.
2    La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino piú delle altre cose che hanno attinenza con il corpo. Il divino è [e] bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtú affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto. A lui vien dietro l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici [267 a] schiere: Estia rimane sola nella casa degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come capi, conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie e venerabili sono le visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l’adempiere ognuno di essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché l’Invidia non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e festini, salgono [b] per l’erta che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché per le pariglie degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, cosí librate, ed esse [c] contemplano quanto sta fuori del cielo.
3    Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiú ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della [d] vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, cosí anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella [e] che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è cibata, s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo cosí giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in piú li abbevera di nettare.
4    [248 a] Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste, ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo la violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti, seguono le altre tutte agognanti quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’atra. Ne conseguono [b] scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lí in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima [c] e che di questo si nutre la natura dell’ala, onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi a seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando l’anima, impotente a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina [d] durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che piú abbia veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere s’incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la [e] quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un contadino, all’ottava un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno.

5    Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni giacché non mette ali in un tempo minore  tranne [249 a] l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste, ci vivono cosí come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. [b] Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie secondo il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che non abbia mai visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal [c] ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Cosí se un uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto; e [d] poiché si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità. [...]

(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 752-758)

domenica 29 maggio 2011

L'ARCHETIPO ADAM KADMON

Adam Kadmon è l'Uomo Celeste è il Logos manifestato,  ilParadigma dell'Umanità, l'Adamo DivinoPrincipale ed Universale. E’ detto anche Adamo Archetipale, giacché è emanazione ontologica di Dio.
E’ concetto diverso da Adam Rischin, che è invece, l'Adamo Primordiale,che si manifesta nell’Eden.
Adam Kadmon include in sè, il principio di tutto, perché diretta emanazione della Causa Prima dalla Luce dell’En Soph di cui è dunque l’immagine.
Adam Kadmon ha origine nello spazio primordiale, quale prima configurazione della Luce divina, la più alta forma attraverso la quale En Soph comincia a manifestarsi. Con la "rottura dei vasi", anche da Adam Kadmon nasce l'Adamo terreno.
Egli è pure Avalokiteshvara, il Logos dei Buddisti del "Grande Veicolo" (Mahayana). In Cina è Kwan-Shai-Yin, “Figlio identico a suo Padre" proprio come la seconda persona della trinità cristiana: Gesù.

Nel simbolismo delle Stanze di Dzyan (dalla Dottrina segreta opera di teosofia nel 1888 da Helena Blavatsky) la materia omogenea del primo piano cosmico é denominata “Uovo del Mondo” e racchiude il "Germe" nel quale vibra il raggio emanato dal primo Logos. La Luce feconda il “germe” dell'Uovo che diviene totalità dei poteri artefici dell’universo.
Per la Blavatsky l'Uomo Celeste è dunque lo Spirito divino del “Terzo Logos"
Secondo la dottrina teosofica si può fare anche un parallelismo tra Adam Kadmon e l’Ouroboros: il Grande Serpente che nell’incessante inseguimento del negativo per il positivo, attira la sua coda nella sua bocca e la morde unendo positivo e negativo e dando inizio all’emanazione di tutte le cose. (Solomon , 2001)
Come il dio egiziano Kneph, che dà il “soffio della vita”, che Diodoro e Plutarco, associavano al dio greco Pneuma. Kneph diede vita a tutto con il suo soffio di spirito dando forma al creato. Kneph è rappresentato come un serpente che accerchia un vaso colmo di acqua,  e che  si muove sulle acque impregnandole del suo soffio vitale.

E’ dunque presente non solo nella dottrina giudaica ma è archetipo presente in tutte le dottrine religiose ed esoteriche.
E’ possibile raffigurare le Sephirot in forma umana di Adam Kadmon. 

Tale rappresentazione ha parallelismi significativi con la dottrina platonica delle idee.
Le idee per Platone sono entità eterne ed immutabili e perfette da cui si modellano in maniera imperfetta tutte le forme della realtà fisica. Cosi come da Adam Kadmon si genera l’Adamo terrestre o edenico.
Tale corrispondenza non ci deve stupire se si pensa che, già prima di Platone, presso i Babilonesi era diffusa la rappresentazione mentale di un creato ideale celeste, sul cui modello erano state create le cose terrestri.
Il Sépher Yetziràh ("Libro della formazione", il più importante libro sull’esoterismo ebraico) ci fornisce la coniugazione giudaica della teoria delle idee pensate sia come modelli che come principi attivi della creazione: la tecnica divina, mediante la quale il mondo fu costruito in base alle sostanze primarie dove le Sefiroth rappresentavano le idee sia come modelli che come principi. Adam Kadmon unisce in se “la totalità degli esseri" chiamati a manifestarsi nell’universo.
Secondo tale concezione Dio è allo stesso tempo immanente e trascendente:  
- è immanente poichè le Sefiroth (forme) sono emanazione dello spirito divino;
- è trascendente perchè la materia creata da Dio nelle forme e con cui il Mondo fu creato, è frutto della divina attività di creazione.

Adam Kadmon dunque dal piano ontologico sprofonda nel piano terrestre in Adam Rischin.
Facendo un parallelismo con la dottrina platonica l’Adamo terrestre può cercare di tornare al mondo delle idee attraverso i simboli archetipi derivanti dalle idee, che sono ponte per l’iperuranio, dove si trova l’Adam Kadmon.

di Gandolfo Dominici

Fonti:
- Solomon Lancri - Introduzione allo studio della dottrina segreta - Gnosi - 2001
- Blavatsky Helena P. - Le stanze di Dzyan -Gnosi - 2011
- Lahy Georges -Sepher Yetzirah. Il libro della formazione - Venexia- 2006

sabato 21 maggio 2011

IL MITO DELL'ANDROGINO DI PLATONE


La figura dell'androgino entra nella cultura europea con la descrizione che ne fa Platone nel Simposio: èAristofane, nel dialogo, che narra di questo terzo genere, non figlio del Sole come gli uomini, non figlio della Terra come le donne, ma figlio della Luna, che della natura di entrambi partecipa.
Secondo questo mito, originariamente l'umanità era dunque distinta in tre generi: uomini, donne e androgini. Gli androgini erano creature per metà di un sesso e per metà dell'altro, avevano una forma sferica, perfetta, quattro gambe, quattro braccia e due teste. L’androgino era felice, poiché completo.
Gli dei erano gelosi della loro felicità, e si sentivano minacciati. Il mito racconta che la completezza autosufficiente rese gli umani androgini, completi nella robusta rotondità, così arroganti da immaginare di dare la scalata all'Olimpo, e Zeus (non volendo distruggerli per non privare l'Olimpo dei loro sacrifici), separò ciascuno di loro in due metà, riducendoli a solo maschio e solo femmina.
Gli dei riunirono a consiglio: non potendo annientarli come avevano fatto con i giganti, né lasciarli vivere a quel modo, Zeus decise di spaccarli in due. Avrebbero camminato eretti, su due gambe così da diminuirne la forza.  
Ad Apollo venne affidato il compito di rovesciare la faccia delle singole metà sezionate dalla parte recisa, di modo che ciascuna - rimirando il proprio ombelico, punto dove una volta era congiunta l'altra estremità - si sarebbe comportata con più moderazione, memore «dell'antico evento».
Le due metà, in preda alla nostalgia dell'Uno, si sforzarono
«[..] di fare, di due, uno, e di guarire la natura umana», poiché ciascuna metà riconosceva nell'altra il proprio «completamento».
Ciascuna metà cercava la sua metà mancante e quando esse si trovavano tentavano disperate di stringersi in un abbraccio amoroso, pur non riuscendovi affatto - visto che i loro organi genitali erano stati posti, crudelmente, ai lati dei loro corpi amputati.
Così, abbandonandosi sconsolate all'inazione, le metà separate morivano di fame, straziate dall'irreparabile perdita subita. Finché Zeus «mosso da pietà» escogitò un sistema più funzionale ai suoi scopi; spostò al centro gli organi genitali e permise in tal modo una congiunzione, seppur provvisoria, delle due metà disgiunte.
La nostalgia di quella interezza, mai placata, è la radice e in qualche modo la costrizione all'amore. 
Alla base dell'amore vi è dunque il desiderio di ricostituire l'Uno originario, ovvero la Misura autentica di tutte le cose riconquistando la mitica interezza perduta.
L'intervento divino di spostamento dei genitali ha permesso agli esseri umani di saziare pienamente la  sete d'immortalità mediante l'atto sessuale di procreazione, in cui il due ridiviene nuovamente unol'eternità è dunque nella creazione della  progenie.
Scrive Platone
"E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. […]
 Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro."

venerdì 20 maggio 2011

LA “LEGIONE DEI CARAIBI”. Storia di una fratellanza di idealisti, rivoluzionari e massoni. Di Gandolfo Dominici


LA “LEGIONE DEI CARAIBI”
Storia di una fratellanza di idealisti, rivoluzionari e massoni.
Di Gandolfo Dominici

Pochi conoscono la storia della “Legione dei Caraibi” e del suo importante contributo nella lotta contro le dittature latino-americane nel periodo post-bellico.
La “Legione dei Caraibi” fu un’alleanza di politici e uomini d’azione democratici i cui vertici erano costituiti per gran parte da personaggi appartenenti alla Massoneria o che con essa ebbero stretti legami.
Il termine “Legiòn Caribe” (Legione dei Caraibi) si deve a Jerry Hannfin, corrispondente del Time, che riportando sulla Guerra Civile della Costa Rica, scrisse che Limòn era stata presa da un gruppo di soldati caraibici che battezzò “Legione dei Caraibi” (dal nome di uno dei battaglioni impegnati nella missione). Da allora questo nome romantico venne usato per indicare l’alleanza di esuli per la liberazione dei Caraibi dalle dittature.
Lo scopo della Legione dei Caraibi era la rivoluzione per lo smantellamento dei regimi totalitari filo-statunitensi in Sud America. Uno scopo “cruento” ma romantico e spinto da profondi ideali di libertà e giustizia sociale.
Dalla Costarica a Cuba, passando per Nicaragua, Guatemala, Santo Domingo e Paraguay, non ci fu rivoluzione contro una dittatura in America latina dove la “Legione” non fu coinvolta militarmente o come supporto finanziario. Una fratellanza che ricorda per molti aspetti la “Carboneria” del nostro periodo Risorgimentale e che come la Carboneria aveva legami osmotici con la Massoneria.
Della Legione dei Caraibi la storiografia parla molto poco. Recentemente alcuni articoli dello scrittore argentino Emilio J. Corbiére e le memorie di Huber Matos hanno ridato luce a questa interessante storia ed al coinvolgimento della Massoneria nella lotta contro le dittature negli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale.
Questo breve saggio, senza pretesa di essere esaustivo sull'argomento, vuole essere uno spunto per conoscere e per approfondire un aspetto poco conosciuto della storia dell'America latina e dell'opera politica della Massoneria in quel continente.

L'autore
Gandolfo Dominici è nato a Palermo nel 1974, è professore aggregato di Marketing e Ricercatore confermato di Economia e Gestione delle Imprese presso la Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Palermo. Si occupa per hobby di ricerche su argomenti esoterici e storiografici.


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http://www.tipheret.org/it/scheda_libro.php?id=1245

La Tradizione Isiaca della Grande Madre

Tendiamo a parlare di tradizione “Isiaca” della Grande Madre, poiché siamo portati a ritenere ed a riscontrare come la cultura misterica sviluppatasi nel bacino del Mediterraneo assuma la figura della Dea Iside come prototipo manifesto della madre  celeste, generatrice di un figlio luminoso, guida dei popoli e delle nazioni.

In realtà, approfondendo l'argomento, la questione appare assai più complessa, con mitologie  che narrano di figure archetipali sempre più antiche e con racconti che rinviano a mitologie, simili od  assimilabili a quelle oggetto del nostro studio,  ma comunque diverse, fino a doversi perdere in terre mesopotamiche, mediorientali, iraniche, senza poterne venire veramente a capo. 
Ecco allora che nasce l'esigenza di trovare non solo un metodo di ricerca e di studio che ci possa supportare, ma anche un principio guida che possa segnare dei termini sicuri lungo questo interessante ma faticosissimo 
percorso. 
Tale metodo e principio non può che  essere segnato dall'evoluzione del principio primigenio della Magna Mater quale generatrice cosmogonica, sotto varie forme e con molteplici aspetti, ma sempre e comunque madre e sposa del principio originario maschile, in tutti i piani dell'emanazione, in ogni angolo dell'Universo. 
La mitologia egizia, vicina al nostro  sentire e, comunque, progenitrice di ogni mitologia mediterranea, ci fornisce un significativo punto di partenza.  

Proviamo ad approfondire un po' la cosmogonia kemita eliopolitana, con particolare attenzione alla linea femminile. 
All'inizio di ogni esistenza era NUN, l'Oceano primordiale, dal quale emerse TA-TENEN, la prima terra, la coagulazione del caos originario, da essa sorse ATUM, prima manifestazione divina, riassumente in sé il tutto 
ed il nulla.  
Nel prepararsi al primo atto generativo ATUM  diviene ATUM-RA, principio solare di ogni azione demiurgica che, nel divenire, dà esistenza alla prima coppia divina, composta da SHU, Dio dell'Aria, e da TEFNUT, Figlia del caldo umido. 
In risonanza con la natura e le qualità demiurgiche, i due primi princìpi divini danno vita alla seconda Dimensione Cosmica con la nascita del Dio maschile GEB, la Terra e del Dio femminile NUT, il cielo. 
Nella ulteriore ipostasi GEB e NUT  danno origine a due coppie divine: OSIRIDE - ISIDE, e SETH-NEFTYS (o NEFTI), con un atto generativo contrastato da SHU, geloso di NUT. 
NEFTI, con i vestiti ed il profumo di ISIDE, riesce ad ingannare OSIRIDE e concepire con lui un figlio, ANUBIS, Dio delle necropoli, Signore della Terra Sacra; il secondo concepimento  avverrà fra OSIRIDE ed ISIDE  e sarà non più carnale, ma spirituale, il figlio è HORUS, il Dio del Cielo, Signore del Sole e della Luna, Sotèr Salvatore e rettificatore dell'Umanità. Al di là del dato storico ed identificativo delle singole divinità, emergono alcuni importanti e significativi elementi di considerazione: per la prima volta viene manifestata un'ipostasi  divina in un ambito concettuale di “dualità”;  per la prima volta emerge un “contrasto” nell'ambito del flusso generativo del divenire; per la  prima volta appare il concetto di quaternario; per la prima volta si struttura, almeno in una così importante e divulgata tradizione, una differenza fra generazione carnale e generazione spirituale; per la prima volta le divinità si pongono su diversi piani emanativi. 
Tutti questi elementi saranno ripresi dalle cosmogonie veterotestamentarie e, sotto altri aspetti, anche da quelle gnostiche. 
L'aspetto femminile delle divinità egizie è intrinsecamente connesso con la tradizione della Grande Madre che, certamente, è di per sé storicamente antecedente, ma ha la prerogativa di essere compiutamente strutturato e 
trasposto su più livelli di manifestazione. 
Ad esempio, TEFNUT è la personificazione della prima coppia divina, NUT quella della seconda dimensione cosmica ed ISIDE l'ipostasi del femminino sacro nella simbologia del quaternario del mondo manifesto. 
Prendendo a prestito qualche concetto filosofico dalla patristica medievale possiamo così affermare che TEFNUT  rappresenta la “causa causante”, ISIDE la “causa causata” e NUT la “causa formante”.  
Questa differenziazione non è solamente formale, ma è sostanziale: ciascuna personificazione  rappresenta l'elemento femminile su di un diverso piano ed è connaturata ad un diverso livello concettuale; e più è elevato il livello di riferimento, maggiore è la difficoltà di comprensione del significato intimo, esoterico, dell'ipostasi divina. 
Trasferendo tale concetto in una dimensione cabalistica del femminino sacro, possiamo affermare che TEFNUT rappresenta l'elemento femminile nel mondo archetipale, NUT in quello della creazione e ISIDE in quello della formazione. 

Esiste un aspetto terribile della Grande Madre, vita e nascita, in profondità, sono legate alla morte ed alla distruzione: la Grande Madre Ta-Urt è un mostro terrificante  e divoratore, mortifera e protettiva; Ammit divora le anime che non erano presenti al giudizio di mezzanotte.  
Tuttavia la figura eliopolitana di Iside ha garantito, con i suoi misteri, la rinascita e la resurrezione non solo dell'anima del faraone, ma di tutte le anime. 
Possiamo quindi affermare che la sicurezza del magico successo sulla via del sole, comunicata potenzialmente  ad ogni individuo, ha colmato l'angoscia primordiale rappresentata dalla Grande Madre distruttrice e 
divoratrice. 
Il mondo sotterraneo, l'utero terrestre, inteso come pericolosa terra dei morti che il trapassato deve attraversare sia per essere giudicato e giungere al regno ctonio della salvezza e della dannazione, sia per attingere un più elevato livello di esistenza, è uno  dei simboli archetipici della Madre Terribile. 
Il sole tramonta ad ovest e si immerge nell'utero del mondo sotterraneo che lo divora; perciò l'occidente è il luogo della morte. 
Come il tempio è il simbolo femminile e protettivo della casa, cioè della Grande Dea quale tarda evoluzione della caverna, la porta del tempio, in quanto accesso alla Dea, è il suo utero. Non solo dunque il luogo della nascita è ovunque sacro per il femminile, ma si vede anche che esso è il centro di tutti i culti dedicati alla Grande Dea femminile come Signora della nascita, della fertilità e della morte. 
Nell'Asino d'Oro di Apuleio l'iniziato ai misteri di Iside deve attraversare le 12 ore della notte,corrispondenti al viaggio notturno del sole nel mare secondo la concezione egiziana. 
La più bella espressione del legame della Grande Madre con i morti è costituita dai sarcofagi egiziani, che presentano sul fondo la Dea Nut, dea del cielo, che abbraccia il morto.  Essa è la dea della rinascita, ma ha anche un carattere di morte, in quanto cielo notturno ed oscuro, identificabile con l'acqua e con l'oscurità divorante della terra. 
Il femminile positivo dell'utero appare, in moltissime iconografie dell'antichità, non solo  mediterranea, come “bocca”: ed è per questo motivo che al genitale femminile vengono attribuite delle “labbra”. Alla base di quest'equazione simbolica la bocca, come un utero spostato in alto, costituisce il luogo di nascita del respiro, della parola e, in buona sostanza, del Logos
Analogamente l'aspetto distruttivo del femminile appare sovente nella forma archetipica di una bocca irta di denti. 
Nel suo doppio aspetto la Grande Madre, in quanto Madre Buona, è la signora della Porta d'Oriente, la porta della nascita, in quanto Madre Terribile, essa è la signora della  Porta d'Occidente, della morte e dell'ingresso negli inferi. L'inferno ed il mondo sotterraneo,  in quanto vaso della morte, costituiscono le forme  del vaso utero negativo, portatore di morte, contrapposto al suo aspetto positivo, datore di vita. 

Nella sua ampia e profonda fenomenologia l'archetipo del femminile, con il suo aspetto positivo e negativo, abbraccia ciò che sta in alto e ciò che sta in basso, ciò che è prossimo e ciò che è lontano: esso appare come un grande cerchio che costituisce e contiene l'intero Universo. 
Sia che la sorgente mitica della vita sia l'oceano primordiale, sia che essa sia la terra od il cielo, il luogo di origine presenta un elemento costante: l'oscurità originaria.  
L'oscurità della notte primordiale,  mondo infero e acqua primordiale, madre di tutte le cose è il simbolo dell'inconscio dell'umanità collettiva; la coscienza illuminata dalla prima differenziazione è dunque figlia di questa profondità primordiale. 
Nella mitologia egiziana di Ermopoli  la natura dell'oceano primordiale, come fosse un serpente Uroboros, è rivelata dal fatto che esso circonda la terra nata da lui stesso e che, alla fine del mondo, riprende nel suoflusso primordiale ciò che da esso è nato. 
Nella rielaborazione cosmogonica elipolitana si colloca la dea Iside nel contesto generativo di Hator, la grande dea madre dalla testa di mucca, e di Nut, la dea celeste, che imbeve la terra della sua pioggia-latte e porta sul dorso il dio solare. 
A Nut, la volta superiore del cielo, corrisponde Naunet, la volta inferiore che, come un cielo riflesso ed inferiore, giace sotto al disco della terra: entrambe formano il grande cerchio del  vaso femminile, ma la dea del cielo inferiore non è “altro” da quella superiore, bensì ne è l'aspetto infero, la parte inferiore del cerchio uroborico
La Grande Dea è l'unità che scorre  dall'acqua primordiale sotterranea e celeste, il mare azzurro su cui viaggiano le barche degli dei della luce, l'oceano circolare che genera la vita sopra e sotto la terra; tutte le acque, le sorgenti, le fontane, così come la pioggia, le appartengono. Essa è l'oceano della vita, con le sue stagioni che portano morte e vita, e la vita è nata da lei, come un figlio. 
Come volta celeste copre i suoi figli come la chioccia i suoi pulcini, perciò il suo nome non era solo “la porta”, ma anche “colei che copre il cielo”. 
In numerose rappresentazioni le ali tese di Iside abbracciano, coprono e proteggono Osiride e, con lui, tutti i trapassati. 
La dea Nut che, dal fondo del sarcofago, abbraccia e prende in grembo i morti, è la stessa madre di morte che, in ambito cristiano, ci è nota come Pietà, come Madonna che tiene in grembo il Cristo morto, ritornato  nuovamente a lei, e che nasconde in sé, come vaso primitivo e come urna, il bambino e l'adulto. 
Domina qui, come ovunque,  la concezione secondo cui la Grande Madre, in quanto cielo notturno, contiene in sé, ed è, cielo, terra e acqua. 
Solo in seguito, con la separazione, nascono la luce, il sole a la coscienza e, con essi, anche la differenziazione. 
Nella sfera matriarcale il cielo diurno è lo spazio dove il sole nasce e muore e non, come sarà in seguito,  lo spazio sul quale esso domina; è il margine luminoso della vita, coperto dalla notte all'inizio ed alla fine, all'interno di esso il figlio della luce deve descrivere il suo arco di luce, che termina sempre nella morte e, sempre, prelude alla sua rinascita, in un cerchio senza fine e senza soluzione. 
Solo dopo l'affermazione del mondo patriarcale, con il dominio del sole, il mattino diviene determinante come esempio della nascita del sole.  
Ma anche allora, stranamente, il computo del tempo viene fatto iniziare non con il tramonto od il sorgere del sole, ma con la mezzanotte e il corso dell'anno comincia con il solstizio invernale, cioè nel periodo più oscuro e buio. 
Anche in Egitto il tempo della nascita è la notte, poiché l'apparizione delle stelle e della luna è, per l'uomo antico, la nascita evidente, mentre il mattino è il tempo della morte, in cui il cielo divora i figli della notte. 
Se prescindiamo dalla correlazione giorno-sole è possibile comprendere questa concezione universale dell'umanità: il sole è un figlio del cielo diurno femminile, così come la luna è figlia del cielo notturno. 
Il cielo femminile è l'elemento stabile e duraturo, e l'elemento luminoso sole, luna, stelle è ciò che sorge e che tramonta, ciò che passa e che declina all'interno dell'uovo cosmico, bianco-nero, della Grande Madre. 
La Grande Madre è, tuttavia, anche Signora del tempo e, dunque, del Fato. 
Il simbolo in cui sono archetipicamente connessi tra loro spazio e tempo è il firmamento, popolato sin dai primordi dalle proiezioni immaginarie dell'umanità. 
Il fatto più significativo non è tanto che in Egitto come in Mesopotamia, in Arabia come in Cina siano state viste egualmente 28 stazioni della luna e 12 stazioni del sole, ma  è che ognuna di queste proiezioni sia stata percepita come parte della vita della Grande Madre stessa, che tutto genera e comprende. 
La dipendenza dalla Grande Madre di tutti i corpi luminosi ed anche delle potenze e divinità celesti, il loro sorgere e tramontare, la loro nascita e morte, la loro trasformazione ed il loro rinnovamento è una delle esperienze che unisce l'umanità. 
L'avvicendamento non solo della notte e del giorno, ma anche dei mesi, delle stagioni e degli anni soggiace alla volontà onnipotente della Grande Madre; essa, adornata dalla luna e dal mantello trapunto di astri notturni, è quindi anche la dea del fato, che tesse la vita così come il destino. 
La Grande Madre è la signora del tempo, in quanto signora della crescita, ed è quindi anche una dea lunare, poiché la luna e il cielo notturno sono le manifestazioni evidenti e visibili della temporalità del cosmo, ed è la luna, e non il sole, l'autentico cronometro dell'era primordiale. 
La qualità temporale, così come  l'elemento acqua, vanno ascritti al femminile, la cui natura fluente diviene evidente nel simbolo del flusso del tempo. 
A partire dalle mestruazioni e dalla loro connessione con  la luna, sino a giungere alla gravidanza, il femminile è ascritto al tempo ed è dipendente e determinato da esso più di quanto lo sia il maschile, che tende al superamento del tempo ed all'esenzione dal tempo. 
Nel concetto di finitezza – infinito è dunque prevalente una presenza divina femminile, datrice di forma e  di vita, così come divoratrice di morte, mentre nel concetto di atemporalità - eternità  è prevalente una presenza divina maschile, solarizzante ed unificante.  Anche il mistero primordiale della filatura e della tessitura è connesso e compreso nella proiezione  della Grande Madre che tesse la vita e fila la matassa del fato. 
Non a caso parliamo di “tessuti” e di “legamenti” del corpo: il tessuto che la Magna Mater prepara al grande telaio del tempo è, nel microcosmo dell'utero, la vita, nel macrocosmo dell'Universo, il destino. 
Le grandi dee sono dunque, in tutta  la tradizione misterica occidentale, tessitrici; l'incrocio dei fili è il simbolo dell'unione sessuale: ancora oggi si parla di “incrocio” di animali o di piante. 
Così il grande cerchio uroborico è  anche ed innanzitutto l'utero che contiene e crea il mondo, dove ciò che è reale e manifesto riceve la forma dalla Grande Madre stessa. 
Non è forse un caso che molte raffigurazioni iconografiche rappresentino la Madonna che tesse, proprio nel momento dell'annunciazione: la Vergine Maria è ancora la Grande Dea che tesse la vita del Cristo nell'utero e, contemporaneamente, nel macrocosmo, il destino dell'Umanità. 
L'archetipo della Grande Madre tessitrice della vita e datrice di forma, con il tessuto corporeo di cui viene rivestito l'uomo, è sopravvissuto per molti millenni, fino alla dama che presiede e procede alla vestizione del 
cavaliere. 
Sopravvive così il segreto aspetto  occulto ed amoroso del principio femminile che, nella trasformazione spirituale, guida ciò che è terreno ed umano verso un senso superiore, illuminandolo. 
  
La divinità femminile, come Grande Cerchio, si rivela come garante della sublimazione e della rinascita della vita. 
La notte, che conduce attraverso la morte ed il sonno alla guarigione ed alla nascita, non solo  rinnova la vita nel suo ciclo ma, trascendendo l'oscurità terrena, eleva la sua essenza tramite l'irruzione di forze profonde, che consentono all'umanità di raggiungere, nell'ebbrezza e nell'estasi, nella poesia e nell'illuminazione, nella profezia e nella saggezza, una nuova dimensione di spirito e di luce. 
L'ineludibile aspetto spirituale del carattere di  trasformazione femminile, attraverso sofferenza e morte, sacrificio e annientamento, lascia scaturire da sé la trasformazione,  il rinnovamento e la rinascita: ciò che è mortale diviene così immortale. 
Una simile trasformazione è legata alla totale penetrazione di ciò che deve essere trasceso nell'archetipo del femminile. 
Ciò che muore nel ritorno al vaso-madre può apparire come terra, acqua, mondo infero, urna, sarcofago, caverna, calderone magico o nave, ma tutto rappresenta comunque il grembo materno della notte o dell'inconscio. 
La donna è quindi la veggente primordiale, la signora delle acque profonde che danno la saggezza, delle fonti mormoranti e delle fontane, poiché l'acqua è, nella mantica, la comunicazione originaria. 
Come la spada è il simbolo del maschile, la coppa lo è del femminile; il filtro magico, la pozione, l'elisir, la bevanda inebriante,  il veleno, che la femmina archetipale mesce è comunque bevanda di trasmutazione, forma evolutiva dell'acqua della vita; tramite esse il maschile si eleva al livello di un'esistenza sublimata e spiritualizzata. 
E' facile a questo punto il paragone con la coppa del Graal e con il calice della Messa, entrambi elementi femminili  contenenti bevande trasmutatorie. 
Nel calice sacro l'acqua si mescola  con il vino, simbolo del sangue e dunque anch'esso femminile; nella ierogamia eucaristica l'elemento femminile della coppa viene congiunto  all'elemento maschile del pane, fatto con il grano, simbolo solare, ancora oggi ben evidenziato dalla forma a disco dell'ostia.  

E mentre la mitologia kemita si differenzia da quella primitiva per la strutturazione tecnica, per così dire, e logica prima ricordata, ancora diverso è l'elemento innovativo della gnosi, intendendo per ambito gnostico prettamente quello sviluppatosi, in senso endogeno, e confluito, in senso allogeno, nel corpus cristiano. 
In particolare la più evidente e significativa differenza fra la mitologia egizia e quella gnostica consiste  nel fatto che l'elemento femminile mantiene la funzione di generatore della divinità redentrice, nel suo aspetto manifesto e terreno, ma riveste contemporaneamente ed antiteticamente la qualità negativa di responsabile della caduta nel mondo di Maya. In primo luogo è bene chiarire che, quando si parla di “gnosi” si fa prevalentemente, ma non necessariamente, riferimento alla religione cristiana, poiché con tale termine  sono conosciuti e  studiati anche dei movimenti misterici ed iniziatici sicuramente pre-cristiani ed etero-cristiani, anche se la ricerca che ci interessa si occupa, evidentemente, della gnosi cristiana, endogena ed allogena.. 
In secondo luogo occorre, anche qui, individuare un principio generale di approccio, stabilendo dei termini  di studio e dei riferimenti che ci indichino una strada condivisa, a rischio, altrimenti, di perdersi nelle labirintiche e intricate cosmogonie eoniche settarie, risultando pressoché impossibile accordare Fibioniti, Stratiotici, Valentiniani, Levitici, Manichei, Adepti della Madre, Nicolaiti, Barbelioti, Esseni, Ofiti, Sethiani, Cucheni, Basilidiani, Perati, Cainiti, Carpocraziani. 
Il principio non può che essere quello sopra individuato, ovvero sia l'individuazione delle figure simboliche femminili  raffiguranti le diverse emanazioni della Magna Mater e collocate sui molteplici piani della manifestazione. 
Certamente ritroviamo nella gnosi il culto della Donna divina, della Madre, dell'eterno Femminino, anche se profondamente trasformato e carico di nuove proiezioni: essa è la via fra Dio ed il Mondo ed è generalmente 
conosciuta con l'appellativo di “Sophia”. 
In essa, però, nella cosmogonia gnostica, l'archetipo del femminile tende a perdere il suo carattere originario di dea incarnata, di Grande Madre, e si manifesta come personificazione del principio supremo spirituale, nell'ambito di un processo auto-redentivo, di conoscenza della propria realtà divina. 
Nell'antagonismo duale fra mondo pleromatico perfetto e mondo imperfetto delle tenebre lo gnostico raffigura  in Sophia un elemento androginico a cui imputa l'opera di creazione, come atto di insubordinazione nei confronti del Padre primordiale, del Dio supremo ed anche della gerarchia pleromatica. 
Ella volle operare da sola, senza il suo compagno Cristòs, e volle attingere direttamente dall'abisso, dal deus absconditus trascendente, sconosciuto e inconoscibile. 
Ella produce dunque il doppio di sé senza il concorso ed il consenso del proprio compagno, il suo pensiero divenne una realtà, ma non l'immagine del divino, bensì un essere imperfetto, un mostro non soltanto per le sue sembianze, un drago con il volto di leone dagli occhi di fuoco, fulminanti e fiammeggianti; egli sarà il creatore, il demiurgo del mondo inferiore. 
Quest'opera imperfetta, inoltre, coincide con la separazione del pleroma dalle tenebre inferiori, simili alle  femminili acque primordiali, ed è per questo che Sophia può essere ricondotta alla figura della Madre extra-
pleromatica che genera il mondo. 
L'immagine del demiurgo che si proclama Dio richiama la figura del drago mitologico ritenuto, già nelle tradizioni più antiche, la personificazione del potere dell'acqua, tanto dispensatore che distruttore di vita. 
Richiamando simbolicamente la materia iniziale da trasformare e plasmare, il drago appartiene all'elemento ctonio dell'acqua, al regno materiale femminile di cui egli è il sovrano, come la sua testa di leone, ovvero la corona che spesso porta, simboleggia, nel suo aspetto negativo. 
Nella concezione gnostica il mondo  ha così origine da un errore ontologico: la decisione di Sophia di conoscere il Padre, il Primo Principio, allontanandosi dal Pleroma e optando, inconsciamente ma volontariamente, per la via del male e delle tenebre. Nell'atto auto-generativo Sophia richiama la  figura dell'Uroboros che interfecit se ipsum, maritat se ipsum, impraegnat se ipsum
L'Uroboros è l'immagine psichica originaria dell'indifferenziato, ove non esiste la distinzione dei contrari,  essendo la rappresentazione della coincidentia oppositorum. 
In Sophia prevale però l'aspetto negativo per cui l'immagine simbolica dell'Uroboros diventa sinonimo di un mondo-cosmo fonte di caos. 
Eppure questa scelta ha un profondo significato: essa rappresenta dal punto di vista animico il principio del disordine, e da quello cosmogonico il principio di separazione; ma ogni cosmogonia implica un sacrificio: dare 
forma alla materia significa partecipare all'energia primordiale per modificarla. 
La Sophia gnostica, come l'Eva biblica, è la Madre che dà la vita, ma crea un mondo imperfetto: alla dimensione del femminile viene dunque imputata la rovina dell'Umanità. 
Da Sophia, tramite il Demiurgo, hanno origine tre nature, che sono la concretizzazione e la cristallizzazione dei suoi stati d'animo: la Ribellione, da cui provengono gli irrazionali o  Ilici, rappresentati da Caino; la Sofferenza, da cui hanno origine gli psichici, giusti e ragionevoli, da cui discende Abele; la Conversione, da cui discendono gli  pneumatici, alla quale appartiene Seth. 
Il peccato, l'errore dell'insubordinazione condanna Sophia ad essere imprigionata nella materia che ella stessa ha creato e da cui può essere redenta attraverso l'azione del suo compagno, il Cristòs Sotèr. Cercare di afferrare ciò  che è al di là della conoscenza fa cadere Sophia nell'ignoranza e nell'informità, in quel vuoto di conoscenza che viene chiamato l'Ombra del Nome, il cono d'ombra; ma nella sua infinita bontà il 
Padre pantocrator invia una goccia di luce infondendola nell'anima degli uomini. 
Attraverso la conoscenza del Salvatore le gocce luminose, destandosi dal sonno umano, potranno ritornare al Padre, ripristinando così l'Unità originaria. 
La Gnosi, portata dal Cristòs per la redenzione di Sophia e dell'intera Umanità è appunto la consapevolezza dell'Unità spirituale. 
Anche l'Eone Sophia possiede molteplici piani di manifestazione: la Pistis Sophia è la Sophia fedele o divina Ennoia, la Sophia Achamot (sapienza) appartiene già al piano extra-pleromatico, la Sophia prunikos (la 
lussuriosa) è generatrice, mentre la Sophia Echmot (tendenza, pensiero) è la Sophia di morte 
Ma è sempre attraverso il femminile, riproducente il maschile da sé, che si ritrova la forza unificatrice degli opposti che conduce alla totalità. 
L'immagine di Sophia incoronata che  ritorna nel Pleroma non è dissimile dall'assunzione di Maria in cielo come Regina coeli. 
Quello di Sophia è dunque un mondo-cosmo caratterizzato da un potere materno, legato alla terra e per questo ctonio, oscuro e tenebroso, riflesso di quella Grande Madre che appare nel suo aspetto negativo e materiale, rispetto a quello spirituale del maschile legato al Pleroma. 
Secondo una concezione prettamente junghiana questo mito gnostico è “palesemente psicologico” in quanto illustra, nella forma di una proiezione cosmica, la separazione dell'Anima femminile da una coscienza maschile 
orientata in senso spirituale, che anela all'assoluto e cioè alla vittoria definitiva dello spirito sul mondo dei sensi. 
L'uomo di questo mondo, secondo il pensiero gnostico possiede un corpo, un'anima ed uno spirito: quest'ultimo racchiuso dai sette rivestimenti dell'anima originati dalle sette sfere degli Arconti, i governatori del mondo in cui l'uomo è prigioniero. 
L'ignoranza è l'essenza dell'esistenza mondana per cui il pleroma, lo spirito è talmente soffocato dall'anima e dalla carne che è assopito, addormentato. 
Esso può essere risvegliato e salvato solo attraverso la conoscenza del Dio trans-mondano e di se stesso, ovvero della sua origine divina ricevuta da Sophia, la madre extra-pleromatica. 
L'anima, se da un lato costituisce il ponte verso l'al di là, dall'altro costringe l'uomo a vivere secondo la  sua emozionalità, trattenendolo nel mondo ctonio e legandolo alla sua caducità. 
Ma in ogni uomo è racchiusa una  scintilla divina che lo unisce alla dimensione pleromatica, una scintilla custodita nella profondità delle acque interiori, dove non arriva la luce  solare, ma solo un flebile riflesso lunare. 
Come sappiamo le dee lunari erano considerate, nella mitologia, fonti della sapienza e della conoscenza. La luna splendente come l'argento è l'immagine del divenire, del morire e del rinascere. 
In tal modo Sophia ritrova ed assomma a sé la luce e le tenebre essendo, per gli gnostici, la Sapienza Divina, la forma femminile dello Spirito Santo; in tal modo la devozione e la fede in questa sapienza può spingere l'uomo ad ascoltare la  voce interna dell'anima, abbandonando la propria autonomia e rassegnandosi all'irruzione delle oscure potenze della luna, dello spirito femminile. 
Attraverso la mediazione alchemica rappresentata dalla figura della Sapientia, Sophia riacquista, nel processo di redenzione, la deità dell'eterno femminino, il volto celeste della saggezza, la potenza delle forze lunari e 
l'espressione della forma più alta del Sé spirituale femminile, una vita che da semplicemente materiale si ritrova tutta protesa verso la totalità e l'Uno. 
Nella concezione della Cavalleria sacra e, segnatamente, del templarismo la mitologia del Femminino sacro approda dopo la mediazione compiuta dall'esperienza e dagli studi di alchimia. 
Tale percorso comporta, come è intuibile, una trasformazione, non certo la scomparsa, ma l'evoluzione di quello che era l'elemento negativo del Femminino sacro, ovvero l'aspetto  distruttivo e divorante della Grande 
Madre. 
Quello che nell'esperienza gnostica  era raffigurato come l'emblema del male compiuto dalla Sophia decaduta,  male da evitare, combattere e distruggere, nella mitologia cavalleresca templare diventa un male da trasformare. 
Simbolicamente la rappresentazione  torna ad essere quella del drago (elemento femminile ctonio) che insidia la dama (Sophia Ennoia) e che la spada del cavaliere deve colpire, non per distruggerlo, ma per trascenderlo 
e trasformarlo. 
La bocca primigenia, divorante ed irta di denti, diviene un aspetto demoniaco nella gnosi, ed un drago nella cavalleria sacra. Primo ed unico nella storia dell'Uomo il cavaliere, avendo già redento il proprio mondo materiale, riesce finalmente anche a  spezzare il cerchio uroborico del mondo animico; la sua spada diviene allora fiammeggiante, proiezione del raggio luminoso salvifico che opera un vero e proprio atto trasmutatorio dell'aspetto lunare ctonio, ponendo la luna da sopra la testa a sotto i piedi, affinché l'atto di ierogamia con il femminile sublimato dia luogo all'apparizione del Cristòs Sotèr nel microcosmo di ciascun Uomo e 
nel macrocosmo dell'intera Umanità. 


di Piero Freddio convegno Filateli ad Ancona 2010


Fonte: http://www.memphismisraim.it/La_Tradizione_isiaca_della_Grande_Madre.pdf