Visualizzazioni totali

domenica 29 gennaio 2012

L'Odine di Cristo - F.Pessoa

Chiesa del Convento do Cristo – Tomar

Secondo Pessoa la sapienza tradizionale è stata trasmessa dalla tradizione ermetica della Chiesa gnostica ai Cavalieri del Tempio e si sarebbe perpetuata, dopo il loro scioglimento, nell’Ordine di Cristo e poi nei Rosacroce.

Nel 1317 il re D. Dinis aveva salvato quel che restava dell’Ordine Templare dalla distruzione totale, inglobandolo nel nuovo Ordine di Cristo la cui sede era nella chiesa di pianta ottagonale che i Cavalieri del Tempio edificarono a Tomar. La croce templare delle otto beatitudini passerà in seguito sulle vele delle caravelle più tardi lanciate nella grande avventura della scoperta del Nuovo Mondo. L’ordine di Cristo, è dunque secondo Pessoa l'erede e continuatore dell’Ordine del Tempio, di cui perpetrava lo scopo di realizzare sulla terra la missione ecumenica già iniziata da San Bernardo.


La Croce Templare al centro del soffitto
della Sacristia Nova del Convento do Cristo – Tomar


***

L’Ordine di Cristo

L’Ordine di Cristo non ha gradi, tempio, rito, insegne o lasciapassare. Non ha bisogno di riunirsi, e i suoi cavalieri, se così li vogliamo chiamare, si conoscono senza sapere nulla 1’uno dell’altro, si parlano senza servirsi di ciò che propriamente si chiama linguaggio. Quando si è scudieri dell’Ordine, non vi si è ancora entrati; quando si è maestri, non gli si appartiene già più.

Con queste parole oscure è detto quanto basta a chi capisce, che lo voglia o lo sappia, ciò che è 1’Ordine di Cristo, il più sublime del mondo.

Non si entra nell’Ordine di Cristo con nessuna iniziazione o, almeno, nessuna iniziazione che si possa esprimere a parole. Non vi si accede per volere o per chiamata; in questo esso è conforme al motto dei maestri:

“Quando il discepolo è pronto, è pronto anche il maestro”.

Ed è nella parola “pronto” che risiede il significato variabile, a seconda degli ordini e delle regole.

Fedele alla sua obbedienza - se si può parlare così di qualcosa in cui non si deve obbedire -, fedele alla Confraternita di cui è figlio e padre, l’Ordine ha in sé la perfetta regola di Libertà, Uguaglianza e Fraternità. I suoi cavalieri -continuiamo a chiamarli così - non dipendono da nessuno, non devono obbedienza a nessuno, non hanno bisogno di nessuno, nemmeno della Confraternita da cui dipendono, cui obbediscono e di cui hanno bisogno. Essi sono perfettamente uguali l’uno all’altro in ciò che li rende cavalieri; tra 1oro scompaiono tutte le differenze che esistono fra le cose del mondo.

I cavalieri sono legati gli uni agli altri dall’unico vincolo di essere tali, e quindi sono fratelli e non soci né associati. Sono fratelli, diciamo, perché tali sono nati. Nell’Ordine di Cristo non c’é giuramento, né obbligo.

Pur essendo molto simile alla Confraternita in cui respira, poiché secondo la Regola “ciò che sta in basso é come ciò che sta in alto “, l’Ordine tuttavia non vi si identifica; é ancora un ordine, anche se un Ordine Fraterno, mentre la Confraternita non lo é.

Fernando Pessoa

Lobbing


Non è il concetto di "lobby" ad essere sbagliato di per se, esso è alla base della democrazia che è nata proprio per effetto delle lobby sia nel mondo antico che nel periodo illuminista.
Una lobby è positiva quando è una "aristocrazia del saper fare". Diventa invece parassitaria quando degenera in "aristocrazia dell'appartenere" basata sull'ubbidienza a prescindere dal saper fare... diventa cioè CASTA come la definiscono alcuni, il cui esempio primo in Italia è quella dei politici, inutili parassiti servi schiocchi dei grandi poteri finanziari.
C'è dunque lobby e lobby ... le lobby vanno valutate a seconda delle modalità di accesso e di ciò che fanno, e non condannate a priori, come tendono a fare coloro che non ne fanno parte per invidia o desiderio di rivalsa.
Gandolfo Dominici

lunedì 23 gennaio 2012

LE TRE METAMORFOSI


 Agata Bulla  olio su tela, anno 2010
Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo.

Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, piú difficili a portare.



Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato.


Qual è la cosa piú gravosa da portare, eroi? cosí chiede lo spirito paziente, affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza.

Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza?

Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore?

Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell’anima?


Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi?

Oppure è: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi?

Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fare paura?

Tutte queste cose, le piú gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, cosí corre anche lui nel suo deserto.

Ma là dove il deserto è piú solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto.

Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria.



Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol piú chiamare signore e dio? “Tu devi” si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice “io voglio”.

“Tu devi” gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama splende a lettere d’oro “tu devi!”.

Valori millenari rilucono su queste squame e cosí parla il piú possente dei draghi: “tutti i valori delle cose – risplendono su di me”.



“Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere piú alcun “io voglio!””. 


Cosí parla il drago.

Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione?

Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone.

Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone.

Prendersi il diritto per valori nuovi – questo è il piú terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda.

Un tempo egli amava come la cosa piú sacra il “tu devi”: ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose piú sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.

Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo?

Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sí.

Sí, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sí: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.

Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo. –

Cosí parlò Zarathustra. Allora egli soggiornava nella città che è chiamata: “Vacca pezzata”.




F. Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra  in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXV, pagg. 234-235

lunedì 16 gennaio 2012

Il traduttore invisibile

 Sicuramente la maggior parte di noi non mente né finge quando, senza sapere il greco, si lascia trasportare dall’entusiasmo per Omero, oppure con una conoscenza profana del latino ha il culto di Orazio e di Catullo. Non mentiamo ne fingiamo: presentiamo. E questo presentimento, frutto di   non so quale insieme di intuizione, suggestione e oscura comprensione, è una specie di traduttore invisibile, che accompagna da un’éra all’altra e rende universale, come la musica, l’arte espressa attraverso la lingua, questo prodotto di Babele con la cui rovina l’uomo è caduto per la seconda volta.  
Quanto c’e di più alto in questo mondo parla, che lo si voglia o meno, un linguaggio simbolico, capito da pochi con la vera chiave ermetica, l’intelligenza, e dai più con l’istinto che bisogna capire, cioè con l’intuizione. I primi sono,  nel caso dell’opera letteraria, coloro che conoscono la lingua in cui l’opera é scritta, perché è la loro madrelingua; gli altri quelli che non la conoscono altrettanto bene o non la conoscono affatto, ma che, pur non conoscendo la lingua, sono tuttavia in grado di capire l’opera. Ma c’e di più, e di più strano. Possiamo, per  intuizione o con quel che sia, figurarci l’anima e la vita di un’opera poetica di cui non sappiamo niente, o di cui, nella migliore delle ipotesi, conosciamo solo una versione in prosa, che è un’altra forma, più complessa, dello stesso niente. Molti di noi, pero, si figurano con discreto esito l’anima e la vita di opere che non hanno mai letto grazie a vaghe reminiscenze  di riferimenti, a oscure e casuali allusioni; e lo stesso vale per opere, sempre in lingua straniera, di cui non esiste, o perlomeno non abbiamo mai letto, nessuna traduzione. Qui il, traduttore invisibile opera invisibilmente. Non ci muoviamo più per intuizione: indoviniamo.  E’ come se ci fosse in noi una parte superiore dell’anima che per natura conoscesse tutte le lingue e avesse letto tutte le opere.In fin dei conti, che cos’è un’opera letteraria se non la proiezione in linguaggio di uno stato dello spirito, o di un’anima umana? E quest’opera è il simbolo vivente dell’anima che l’ha scritta, o del momento in cui quest’anima  - una piccola anima contingente - l’ha proiettata. Perché non dovrebbe esserci una comunicazione occulta da anima ad anima, un comprendersi senza parole, mediante il quale indoviniamo l’ombra visibile attraverso la conoscenza del corpo invisibile che la proietta, e comprendiamo il simbolo, non per esperienza diretta, ma perché conosciamo ciò di cui é simbolo?[…]Chissà […] se non siamo, oggi, noi stessi traduttori invisibili, signori inconsapevoli delle opere che devono ancora nascere nel corso futuro del mondo?
Fernando Pessoa

sabato 14 gennaio 2012

Una realtà per ciascuno di un'unica realtà

Ognuno di noi ha un universo a sé, ma è lo stesso universo per ognuno qualora includa tutte le possibili esperienze. Ciò implica l'estensione della coscienza fino ad includere tutte le altre coscienze.
Nel nostro attuale stato, l'oggetto che vedi non è mai lo stesso di quello che io vedo; noi deduciamo che sia lo stesso a causa la tua esperienza coincide con la mia in cosi tanti punti che l'effettiva differenza della nostra osservazione è irrilevante. Per esempio, se un amico cammina in mezzo a noi, tu vedi soltanto il suo lato sinistro, io quello destro, ma siamo d'accordo che si tratta dello stesso uomo, sebbene vi siano delle differenze non solo riguardo a ciò che vediamo del suo corpo ma anche a ciò che pensiamo delle sue qualità. Questa convinzione di identità si rafforza se lo vediamo più spesso e iniziamo a conoscerlo meglio. Tuttavia ogni volta nessuno di noi due può sapere nulla di lui al di là della impressione generale creata dalle nostre rispettive menti.


"Each one of us has thus an universe of his own, but it is the same universe for each one as soon as it includes all possible experience. This implies the extension of consciousness to include all other consciousness. In our present stage, the object that you see is never the same as the one that I see; we infer that it is the same because your experience tallies with mine on so many points that the actual differences of our observation are negligible. For instance, if a friend is walking between us, you see only his left side, I his right; but we agree that it is the same man, although we may differ not only as to what we may see of his body but as to what we know of his qualities. This conviction of identity grows stronger as we see him more often and get to know him better. Yet all the time neither of us can know anything of him at all beyond the total impression made on our respective minds."

Alister Crowley - Liber Al vel Legis

mercoledì 11 gennaio 2012

L'esoterismo e i suoi misteri - Fernando Pessoa

Alla fine il contenuto dei misteri si riassume in insegnamenti riguardo a tre ordini di cose, che si é sempre ritenuto opportuno non rivelare alla totalità degli uomini. Si è sempre pensato che gli insegnamenti impartiti dalle religioni dovessero essere adattati alla mente di coloro che li ricevono e, poiché molti di essi - questa é l’opinione degli iniziati - sono di ordine tale che il popolo in genere non li capirebbe, e capendoli in modo distorto ne sarebbe turbato, si pensò allora di dividere tali insegnamenti in due categorie: essoterici o profani, quelli esposti in modo da poter essere impartiti a tutti; esoterici o occulti, quelli che, essendo più veri o del tutto veri, e opportuno che siano impartiti solo a individui previamente e gradualmente preparati a riceverli. Questo tipo di preparazione si chiamava e si chiama iniziazione. E in tutti i misteri l’iniziazione é a sua volta graduale e organizzata in modo che, se un individuo non è adatto a ricevere gli insegnamenti occulti, il fatto si riveli prima che questi gli vengano impartiti per intero.

Se gli insegnamenti occulti siano verità o soltanto speculazioni astratte, é un altro problema. Se davvero gli ierofanti dell’occulto posseggono una maggiore conoscenza della verità pura rispetto a noi profani — che la cerchiamo, se la cerchiamo, con la lettura, la meditazione o l’intelligenza discorsiva e dialettica —, è cosa che non possiamo sapere. Tutto ciò può essere sinceramente creduto dagli iniziati, ed essere falso. L’occulto può avere le sue allucinazioni e i suoi inganni.
Comunque sia, è certo che gli insegnamenti impartiti nei misteri riguardano tre ordini di cose: la vera natura dell’anima umana, della vita e della morte, il vero modo per entrare in contatto con le forze segrete della natura e manipolarle, e la vera natura di Dio o degli Dei e della creazione del mondo. Si tratta rispettivamente del segreto alchemico, del segreto magico e del segreto mistico. Il primo si chiama alchemico perché gli insegnamenti ad esso relativi sono in genere impartiti tramite i simboli della cosiddetta alchimia, che non è nient’altro, come oggi é ben noto, se non un linguaggio simbolico [...]

Le vie del Misticismo e della Magia sono spesso vie di inganno e di errore. Il Misticismo significa essenzialmente fiducia nell’intuizione; la Magia significa essenzialmente fiducia nel potere. L’intuizione è un’operazione della mente tramite cui i risultati dell’intelligenza vengono ottenuti senza 1’impiego dell’intelligenza. Il potere, inteso come potere magico, é un’operazione della mente tramite cui i risultati di uno sforzo continuo vengono ottenuti senza l’impiego di uno sforzo continuo. Entrambi, però, per quanto sia il tempo che richiedono, sono scorciatoie per la conoscenza.
In un certo senso, sia il Misticismo sia la Magia sono ammissioni di impotenza. Il mistico è un uomo che sente di non avere in sé la forza di pensiero necessaria a raggiungere la verità mediante il pensiero stesso. Chi pratica la Magia è un uomo che sente di non avere in sé la forza di volontà necessaria a raggiungere la verità (o il potere) mediante la forza di volontà stessa. La ragazza indolente, che indovina o che prova a indovinare, é una mistica, nel suo campo superficiale; è troppo pigra per cercare di sapere. La contadina che tenta di conservarsi l’amore del marito con filtri e incantesimi è una maga nei suoi confini ristretti; è troppo ignorante e troppo debole per cercare di raggiungere il suo scopo per incantesimo diretto, per seduzione permanente. In entrambi i casi c’e una fuga.
Ciò non vuol dire - o perlomeno non necessariamente - che i risultati del Misticismo e della Magia siano per forza sbagliati. Vuol dire, invece, che non c’é nessun criterio con cui poter distinguere un risultato sbagliato da uno giusto in una via o nell’altra. Nella Gnosi, dove ci serviamo dell’intelletto, abbiamo almeno il sostegno del ragionamento; possiamo almeno confrontare un “risultato” con un altro, esaminare se non siano in contraddizione, tanto in se stessi, quanto in rapporto reciproco. Possiamo non ragionare bene, ma ragioniamo. Se sbagliamo, è perché ci siamo ingannati e non perché abbiamo sbagliato in partenza, come nelle altre due vie. E’ come quando si fa male una somma; l’errore non sta nel fare la somma, ma nel farla male; fare la somma è comunque il sistema corretto per ottenere un totale.
Ciò diventerà chiaro se prendiamo a prestito dal Misticismo e dalla Magia esempi elementari, potremmo dire correnti. Un caso semplice di Misticismo é quel tipo diffuso di intuizione che si chiama, nel linguaggio comune “presentimento”.
Una persona ha il presentimento che un certo numero vincerà il primo premio della lotteria.
Qualche volta il presentimento risulta vero, ma tutti sappiamo che, per ogni volta che risulta vero, ce ne sono migliaia in cui risulta falso. Se cosi non fosse, un club di scommesse non sarebbe il grande affare che sempre è. In questo caso, a dire il vero, c’e una strada facile per accertare l’esattezza del presentimento: la lotteria, dopo l’estrazione, lo mostrerà.
Ma come si può provare o confutare il presagire del mistico che dice di aver raggiunto l’unione con Cristo? 
Lui giura di sapere, di sentire... Ma il pazzo che crede di essere Cristo o il re di un certo paese e tanto sicuro di sé quanto il mistico della sua intuizione.
Prendiamo di nuovo un caso semplice di Magia: lo spiritismo. Lo spiritismo è Magia perché è evocazione degli spiriti dei morti a questa vita. Si fa una seduta, si evoca lo spirito del morto X, la voce del medium, il treppiedi o il tavolino annunciano che costui si è manifestato. Come facciamo a saperlo? La comunicazione di cose note solo a uno dei presenti può essere una proiezione della sua mente. La comunicazione di cose note solo al morto e poi verificate può essere la comunicazione di qualche altra forza o spirito. E quando lo spirito ci da notizie della sua attuale dimora, con quale metodo possiamo accertare se queste notizie siano vere o false? Non dico che tutto quanto emerge in una o più sedute sia falso. Ma nemmeno che sia vero: dico solo che non abbiamo la possibilità di conoscere la fonte dell’informazione cosi ricevuta, e quando l’informazione riguarda altri mondi o cose altrimenti non verificabili nel nostro, non abbiamo la possibilità di conoscerne la fonte  o la veridicità.

Fernando Pessoa


lunedì 9 gennaio 2012

L'essenza della visione liberale

 "L'essenza della visione liberale non sta in quali opinioni vengano sostenute ma nel come vengano sostenute; invece di essere sostenute dogmaticamente, esse sono sostenute sperimentalmente e con la consapevolezza che nuovi dati di fatto possono, in qualsiasi momento, portare al loro abbandono" 
“The essence of the Liberal outlook lies not in what opinions are held, but in how they are held: instead of being held dogmatically, they are held tentatively, and with a consciousness that new evidence may at any moment lead to their abandonment.”

Bertrand Russell

sabato 7 gennaio 2012

La favola delle api. B. de Mandeville

Un numeroso sciame di api abitava un alveare spazioso. Là, in una felice abbondanza, esse vivevano tranquille. Questi insetti, celebri per le loro leggi,  non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui si moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e d’industria. Mai api vissero sotto un governo piú saggio; tuttavia mai ve ne furono di piú incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave infelici di una dura tirannia, né erano esposte ai crudeli disordini della feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non potevano errare, perché il loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi.
Questi insetti, imitando ciò che si fa in città, nell’esercito e nel foro, vivevano perfettamente come gli uomini ed eseguivano, per quanto in piccolo, tutte le loro azioni. Le opere meravigliose compiute dall’abilità incomparabile delle loro piccole membra sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi né macchine, né operai, né mestieri, né navi, né cittadelle, né armate, né artigiani, né astuzie, né scienza, né negozi, né strumenti, insomma non v’è nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure non si servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto, non possiamo parlare di ciò che le riguarda se non impiegando le nostre impressioni. Si ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate, questi animali non conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma, poiché avevano dei re, e conseguentemente delle guardie, si può naturalmente presumere che conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai, infatti, degli ufficiali e dei soldati che si astengono da questo divertimento?
Il fertile alveare era pieno di una moltitudine prodigiosa di abitanti, il cui grande numero contribuiva pure alla prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e le ambizioni di altre api, che erano impiegate unicamente a consumare i prodotti del lavoro delle prime. Malgrado una cosí grande quantità di operaie, i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro potevano a mala pena mantenere il lusso della metà della popolazione.
Alcuni, con grandi capitali e pochi affanni, facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri, condannati a maneggiare la falce e la vanga, non potevano guadagnarsi la vita se non col sudore della fronte e consumando le loro forze nei mestieri piú penosi. Si vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi, che non richiedevano né apprendistato, né sostanze, né travagli. Tali erano i cavalieri d’industria, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con pratiche losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini, che non essendo essi stessi capaci d’ingannare, erano meno diffidenti. Costoro erano chiamati furfanti; ma coloro i cui traffici erano piú rispettati, anche se in sostanza poco differenti dai primi, ricevevano un nome piú onorevole. Gli artigiani di qualsiasi professione, tutti coloro che esercitavano qualche impiego o che ricoprivano qualche carica, avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano.
Come se le api non avessero potuto, senza istruire un processo, distinguere il legittimo dall’illegittimo, esse avevano dei giureconsulti, occupati a mantenere le animosità e a suscitare malefici cavilli: questo era lo scopo della loro arte. Le leggi fornivano loro i mezzi per rovinare i loro clienti e per approfittare destramente dei beni in questione. Preoccupati, soltanto di ricavare degli elevati onorari, non trascuravano nulla al fine d’impedire che si appianassero le difficoltà attraverso un accomodamento. Per difendere una cattiva causa, essi analizzavano le leggi con la stessa meticolosità con cui i ladri esaminano i palazzi e i negozi. Ciò soltanto allo scopo di scoprire il punto debole in cui potessero prevalere.
I medici preferivano la reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. La maggior parte, anziché applicarsi allo studio dei princípi della loro disciplina, cercavano di acquistarsi una pratica fittizia. Sguardi gravi e un’aria pensosa erano tutto quello ch’essi possedevano per darsi la reputazione di uomini dotti. Non preoccupandosi della salute dei pazienti, essi lavoravano soltanto per acquistarsi il favore dei farmacisti, e per conquistarsi le lodi delle levatrici, dei preti e di tutti coloro che vivevano dei proventi tratti dalle nascite o dai funerali. Preoccupati di acquistarsi il favore del sesso loquace, essi ascoltavano con compiacenza le vecchie ricette della signora zia. I clienti, e tutte le loro famiglie, erano trattati con molta attenzione. Un sorriso affettato, degli sguardi graziosi, tutto era impiegato e serviva ad accattivarsi i loro spiriti già prevenuti. E si badava pure a trattare bene le guardie, per non doverne subire le impertinenze.
Tra il grande numero dei preti di Giove, pagati per attirare sull’alveare la benedizione del cielo, ve n’erano ben pochi che avessero eloquenza e sapere. La maggior parte erano tanto presuntuosi quanto ignoranti. Erano visibili la loro pigrizia, la loro incontinenza, la loro avarizia e la loro vanità, malgrado la cura ch’essi si prendevano per nascondere agli occhi del pubblico questi difetti. Essi erano furfanti come dei borsaioli, intemperanti come dei marinai. Alcuni invece erano pallidi, coperti di vestiti laceri e pregavano misticamente per guadagnarsi il pane. E, mentre che questi sacri schiavi morivano di fame, i fannulloni per cui essi officiavano, si trovavano bene a loro agio. Si vedevano sui loro volti la prosperità, la salute e l’abbondanza di cui godevano.
I soldati che erano stati messi in fuga venivano egualmente coperti di onori, se avevano la fortuna di sfuggire all’esercito vittorioso, anche se tra essi vi fossero dei veri poltroni, che non amavano affatto le stragi. Se vi era qualche valente generale che metteva in rotta i nemici, si trovava qualche persona che, corrotta con dei regali, favoriva la loro ritirata. Vi erano pure dei guerrieri che affrontavano il pericolo comparendo sempre nei punti piú esposti. Prima perdevano una gamba, quindi un braccio, infine, quando tutte queste mutilazioni li avevano resi non piú in grado di servire, li si congedava vergognosamente a mezza paga; mentre altri, che piú prudentemente non andavano mai all’attacco, ricavavano la doppia paga, per restare tranquillamente tra di loro.
I loro re erano, sotto ogni riguardo, mal serviti. I loro ministri  li ingannavano. Ve n’erano invero parecchi che non tralasciavano nulla per far progredire gl’interessi della corona; ma contemporaneamente essi saccheggiavano impunemente il tesoro che s’industriavano ad arricchire. Essi avevano il felice talento di spendere abbondantemente, nonostante che i loro stipendi fossero molto meschini; e per giunta si vantavano di essere molto modesti. Si esagerava forse nel considerare le loro prerogative quando le si denominava le loro “malversazioni”? E anche se ci si lamentava che non si comprendeva il loro gergo, essi si servivano del termine di “emolumenti”, senza mai voler parlare naturalmente e senza camuffamenti dei loro guadagni. Infatti non vi fu mai un’ape che sia stata effettivamente soddisfatta nel desiderio di apprendere, non dico quello che guadagnavano effettivamente questi ministri, ma neppure ciò che essi lasciavano scorgere dei loro guadagni. Essi assomigliavano ai nostri giocatori, i quali, per quanto siano stati fortunati al gioco, non diranno tuttavia mai in presenza dei perdenti tutto quello che hanno guadagnato.
Chi potrebbe descrivere dettagliatamente tutte le frodi che si commettevano in questo alveare? Colui che acquistava del letame per ingrassare il suo prato, lo trovava falsificato per un quarto con pietre e cemento inutili; e per giunta qualsiasi poveretto non avrebbe avuto la facilità di brontolare di ciò, perché a sua volta imbrogliava mescolando al suo burro una metà di sale.
La giustizia stessa, per quanto tanto rinomata per la sua fortuna di essere cieca, non era per questo meno sensibile al brillante splendore dell’oro. Corrotta dai doni, essa aveva sovente fatto pendere la bilancia che teneva nella sua mano sinistra. Imparziale in apparenza, quando si trattava d’infliggere delle pene corporali, di punire degli omicidi o degli altri gravi crimini, essa aveva bens’ spesso condannato al supplizio persone che avevano continuato le loro ribalderie dopo esser state punite con la gogna. Tuttavia si riteneva comunemente che la spada che essa portava non colpiva se non le api che erano povere e senza risorse; e che anche questa dea faceva appendere all’albero maledetto delle persone che, oppresse dalla fatale necessità, avevano commesso dei crimini che non peritavano affatto un tale trattamento. Con questa ingiusta severità, si cercava di mettere al sicuro il potente e il ricco.
Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtú, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i piú scellerati facevano qualcosa per il bene comune.
Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Cosí i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado. La temperanza e la sobrietà degli uni facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri. L’avarizia, questa funesta radice di tutti i mali, questo vizio snaturato e diabolico, era schiava del nobile difetto della prodigalità. Il lusso fastoso occupava milioni di poveri. La vanità, questa passione tanto destata, dava occupazione a un numero ancor maggiore. La stessa invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria, facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella diversità dei cibi, la sontuosità nel vestiario e nel mobilio, malgrado il loro ridicolo, costituivano la parte migliore del commercio.
Sempre incostante, questo popolo cambiava le leggi come le mode. I regolamenti che erano stati saggiamente stabiliti venivano annullati e si sostituivano ad essi degli altri del tutto opposti. Tuttavia con l’alterare anche le loro antiche leggi e col correggerle, le api prevenivano degli errori che nessuna accortezza avrebbe potuto prevedere.
In tal modo, poiché il vizio produceva l’astuzia, e l’astuzia si prodigava nell’industria, si vide a poco a poco l’alveare abbondare di tutte le comodità della vita. I piaceri reali, le dolcezze della vita, la comodità e il riposo erano divenuti dei beni cosí comuni che i poveri stessi vivevano allora piú piacevolmente di quanto non vivessero prima. Non si sarebbe potuto aggiungere nulla al benessere di questa società.
Ma, ahimè, qual è mai la vanità della felicità dei poveri mortali! Non appena queste api avevano gustato le primizie del benessere, tosto mostrarono che è persino al di là del potere degli dèi il rendere perfetto il soggiorno terrestre. Il gruppo mormorante aveva spesso affermato di esser soddisfatto del governo e dei ministri; ma al piú piccolo dissesto cambiò idea. Come se fosse perduto senza scampo, maledí le politiche, gli eserciti e le flotte. Queste api riunirono le loro lagnanze, diffondendo ovunque queste parole: “siano maledette tutte le furberie che regnano presso di noi!”. Tuttavia ciascuna se le permetteva ancora; ma ciascuna aveva la crudeltà di non volerne concedere l’uso agli altri.
Un personaggio che aveva ammassato immense ricchezze, ingannando il suo padrone, il re e i poveri, osò gridare a tutta forza: “il paese non può mancare di perire a causa di tutte le sue ingiustizie!”. E chi pensate che sia stato queste severo predicatore? Era un guantaio, che aveva venduto per tutta la sua vita, e che vendeva anche allora, delle pelli d’agnello per pelli di capretto. Non faceva la minima cosa in questa società che contribuisse al bene pubblico. Tuttavia ogni furfante gridò con impudenza: “buon Dio, dateci soltanto la probità!”.
Mercurio (il dio dei ladroni) non poté trattenersi dal ridere nell’ascoltare una preghiera cos’ sfrontata. Gli altri dèi dissero che era stupidità il biasimare ciò che si amava. Ma Giove, indignato per queste preghiere, giurò infine che questo gruppo strillante sarebbe stato liberato dalla frode di cui essa si lamentava.
Egli disse: “Da questo istante l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza, essa aprirà gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si possono contemplare senza vergogna. Essi si sono riconosciuti colpevoli coi loro discorsi, e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità dei loro crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe, traditi dal loro colorito, immaginano che quando li si guarda, si legga sul loro volto malsicuro, la cattiva azione che hanno compiuto”.
Ma, per Dio, quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate diminuí ovunque. Ciascuno, dal primo ministro sino ai contadini, si strappò la maschera d’ipocrisia  che lo ricopriva. Alcuni, che erano ben conosciuti già da prima, apparivano degli stranieri, quand’ebbero ripreso le loro maniera naturali.
Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, senza eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si condonava generosamente a coloro che non erano in grado di soddisfarli. Se sorgeva qualche difficoltà, quelli che avevano torto rimanevano cautamente in silenzio. Non si videro piú processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione. Nessuno poteva piú accumulare ricchezze. La virtú e l’onestà regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche coloro che prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare molto, disperati, abbandonavano la loro scrivania e si ritiravano.
La giustizia, che sino ad allora si era occupata di far impiccare alcune persone, concedeva la libertà a quelle che teneva prigioniere. Ma, dopo che le prigioni furono vuotate, diventando inutile la dea che ad esse presiedeva, costei si vide costretta a compiere una ritirata, con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si videro i fabbri, addetti alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si videro i carcerieri, i secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro scudiero, il carnefice, grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non era armata della sua spada immaginaria, bensí in sua vece portava l’ascia e la corda. La signora giustizia, con gli occhi bendati, seduta su di una nuvola, fu cosí cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e dietro di esso vi erano i sergenti, gli uscieri e i domestici di tale specie, che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati.
L’alveare aveva ancora dei medici, cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina, quest’arte salutare, non era piú affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí diffusi nell’alveare, che nessuno di essi aveva bisogno di una vettura. Le loro vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era quello che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate da paesi stranieri, essi si limitavano alle semplici medicine prodotte nel loro paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza donar loro, nello stesso tempo, i veri rimedi, si dedicavano a scoprire le proprietà delle piante che crescevano presso di loro.
I ricchi ecclesiastici, destati dalla loro vergognosa pigrizia, non facevano piú servire le loro chiese da api prese alla giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti coloro che non si sentivano capaci di adempiere questi doveri, o che ritenevano che si potesse fare a meno dei loro servizi, si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano occupazioni sufficienti per tante persone, se pur ne restava ancora qualcuna: giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente sottomessi al pontefice, il quale si occupava esclusivamente degli affari religiosi, abbandonando agli altri gli affari dello stato. Il reverendo capo, divenuto caritatevole, non aveva piú la durezza di cuore di cacciare dalla sua porta i poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal salario del povero. Era invece presso di lui che l’affamato trovava cibo, il mercenario il suo pane, l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto.
Il cambiamento non fu meno considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni. Divenuti economi e temperanti, i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se un’ape povera era venuta dieci volte per richiedere il giusto pagamento di una piccola somma, e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento, prima si era denominata una tale alternativa la “malversazione” del funzionario; ma ora la si chiamava, col giusto nome, una ribalderia manifesta.
Una sola persona era sufficiente per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del felice cambiamento. Non v’era piú bisogno di affiancare un collega per sorvegliare le azioni di coloro a cui si affidava il mantenimento degli affari. I magistrati non si lasciavano piú corrompere e non cercavano piú di facilitare i ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte piú lavoro di quanto non ne facessero prima parecchie persone.
Non era piú cosa onorevole il far figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle botteghe dei rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro carrozze, le vendevano a poco prezzo. I nobili si liberavano di tutti i loro superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne, per pagare i loro debiti.
Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano piú degli eserciti all’estero. Non curandosi piú della stima degli stranieri e della gloria frivola che si acquista con le armi, non si combatteva se non per difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e alla sua libertà.
Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto!
Coloro che facevano delle spese eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a ritirarsi. Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro il necessario.
Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò. I palazzi incantevoli, i cui muri, simili alle mura di Tebe, erano stati elevati con armonia musicale, divennero deserti. I potenti, che prima avrebbero preferito perdere la loro vita piuttosto che veder cancellare i loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi, schernivano ora queste vane iscrizioni. L’architettura, quest’arte meravigliosa, fu del tutto abbandonata. Gli artigiani non trovavano piú nessuno che li volesse impiegare. I pittori non diventavano piú celebri con le loro pitture. La scultura, l’incisione, il cesello e la statuaria non furono piú rinomate nell’alveare.
Le poche api che vi restarono, vivevano miseramente. Non ci si preoccupava piú di come spendere il proprio denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna, decidevano di non rimetterci piú piede. Non si vedevano piú le donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati d’oro. Torcicollo non donava piú delle grosse somme per avere del borgogna e degli uccelletti. I cortigiani, che si compiacevano di regalare a Natale alla loro amante degli smeraldi, spendendo in due ore tanto quanto una compagnia di cavalleria avrebbe speso in due giorni, fecero bagaglio e si ritirarono da un paese cosí miserevole.
La superba Cloe, le cui grandi pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a saccheggiare lo stato, ora vende il suo abbigliamento, composto dei piú ricchi bottini delle Indie. Ora sopprime le sue spese e porta tutto l’anno lo stesso abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono piú con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro, tutti gli operai che lavoravano le ricche stoffe di seta e d’argento e tutti gli artigiani che dipendevano da loro, si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe piú semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo piú costretta dall’infaticabile giardiniere, produce bensí i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce piú né rarità, né frutti precoci.
A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano piú né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell’industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non ricercarono piú la novità, non hanno piú alcuna ambizione.
E cosí, essendo l’alveare pressoché deserto, le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei loro nemici, cento volte piú numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il valore possibile, finché qualcuna di loro avesse trovato un rifugio ben fortificato.
Non v’era alcun traditore presso di loro. Tutte combattevano validamente per la causa comune. Il loro coraggio e la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria.
Ma questo trionfo costò loro tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto dello sciame, che si era indurito nella fatica e nel lavoro, credette che l’agio e il riposo, che mettono a sí dura prova la temperanza, fossero un vizio. Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, tutte queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un albero, dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà.

MORALE

Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti piú eccellenti.
È cosí che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori.


-------------------------------

Attraverso un provocatorio poema satirico – allegorico, Mandeville si pone la seguente fondamentale domanda: per avere una società economicamente prospera, occorre che gli individui che la compongono siano virtuosi? Mandeville risponde negativamente: i vizi privati sono la base dei pubblici benefici, e pertanto l’economia può fare a meno della morale. L’allegoria è la seguente: i componenti di un prospero e florido alveare si comportano in modo disonesto maledicendo sempre le disonestà altrui. Ipocritamente chiedono agli dèi un po’ più di onestà. Ma mentre Mercurio “sorride a tanta impudenza”, Giove, indignato, decide di accontentarli, e “libera lo schiamazzante alveare dalla frode”: da orgogliosi, invidiosi ed amanti del lusso, vengono trasformati in buoni cittadini dediti alla sobrietà e al risparmio. Le conseguenze sociali di una simile trasformazione sono nefaste: se inizialmente
"…il lusso
dava da vivere a un milione di poveri
e l’odiosa superbia a un altro milione.
Perfino l’invidia e la vanità
favorivano l’industria."
in seguito, praticando comportamenti virtuosi:
"mentre vanità e lusso diminuiscono,
anche le vie del mare sono abbandonate.
Non vi sono più mercanti,
e intere fabbriche vengono chiuse.
Tutte le arti e i mestieri sono negletti:
l’accontentarsi del proprio stato, rovina l’industria
[…]
La virtù da sola non può far vivere
le nazioni nello splendore"

La redenzione morale, portando ad un crollo dei consumi, e quindi a disoccupazione e depressione, si trasforma in collasso economico. Mandeville può quindi affermare che i vizi sono la base della prosperità. Il ragionamento economico ha sicuramente un certo fondamento; sappiamo che sarà 
riproposto da Keynes due secoli dopo sotto forma di “paradosso del risparmio”

lunedì 2 gennaio 2012

La simbologia dei nodi

I significati del nodo sono molto diversi tra le diverse epoche e culture.
In alcune culture antiche era proibito indossare nodi in determinate occasioni (parto, matrimonio, morte).
Per gli Egizi il nodo si trova di frequente rappresentato nell’iconografia e nelle sculture in diverse posizioni: sulla testa, in mano o nelle cinture alla vita.
Il nodo di Iside è simbolo di immortalità è rappresentato su alcuni sarcofaghi.Esso è spesso formato con un laccio da calzare, perché il calzare; il calzare infatti lascia un traccia vivente sulla terra che calpesta.
Nell’antica Grecia durante la processione di Dioniso le donne si scioglievano i capelli; mentre fra i romani il flamine di Giove non doveva portare alcun nodo né sull’abito né nei capelli.
In Russia il nodo aveva una funzione rilevante nell’amore e nei rituali matrimoniali; l’abito nuziale, prevedeva infatti una cintura intrecciata con nodi con funzione scaramantica contro il malocchio.
In Marocco esiste un’antica usanza secondo cui lo sposo può avere rapporti sessuali con la sposa solo dopo aver sciolto sette nodi dalle sue vesti.
Una tradizione araba ancora in uso oggi il marito lega due rami di un albero prima di partite per un viaggio, se al suo ritorno trova i rami ancora legati è segno che la moglie gli è rimasta fedele.
Nelle tradizioni islamiche il nodo è simbolo di protezione contro il malocchio, cosi come avveniva presso i Greci e gli antichi Romani.
Esistono anche numerosi riferimenti ai “nodi magici”. Il Corano fa riferimento alla pratica delle streghe che annodavano nodi magici su cui soffiavano per legarvi un sortilegio.
Si parla anche di nodi magici da adoperare contro i nemici umani. M. Hamidullah nella sua traduzione del Corano raccomanda, di pregare Dio contro “il male di quelle che soffiano sui nodi”.
Ma i nodi possono anche essere benefici, utilizzati per difesa contro animali selvatici, demoni, malattie e persino contro la morte. 
Come nell’antico Egitto era segno di vita al contrario in altre culture al nodo è spesso associato un significato di morte. Nella mitologia greco-latina le Moire annodano e tagliano il filo della vita umana.
Nella mitologia indiana, i nodi sono legati alla divinità della morte Yama, ai demoni ed alle malattie.
In Iran il demone Astovidhatush lega l’uomo che sta per morire.
Gli Arunta australiani credono che i demoni uccidano gli uomini legando fortemente la loro anima con una corda per portarli nel Paese dei Morti.

Ma altri nodi hanno anche altri significati. Possono anche rappresentare gli intrecci della vita e le sue fatalità.
Quando intrecciati ripetutamente lungo una corda, i nodi possono rappresentare i vincoli che legano tra loro più persone in una sorta di catena di unione.
Il singolo nodo assume significati ben più specifici, cioè i compiti che ogni nodo deve svolgere per dare uno scopo preciso all’intera catena.

Il nodo è anche costrizione, intralcio, difficoltà, attorcigliamento.
Abramo Abulafia (XII secolo) sostiene che lo scopo della vita è quello di liberare l’anima, cioè slegare i diversi nodi delle corde che la legano. Dopo avere sciolto tutti i nodi sopraggiunge la morte, cioè la vera vita. Analogo concetto si ritrova nel buddismo tibetano ne "Il libro dello scioglimento dei nodi”. Sciogliere è in relazione sia alla crisi che alla morte, sia alla soluzione che alla liberazione.
Secondo questa accezione dunque, da un punto di vista spirituale sciogliere i legami significa liberarsi dagli affetti per vivere su un piano più elevato.
Bisogna disfare, risolvere, sciogliere i nodi e non tagliarli come fece Alessandro con il nodo gordiano.

Il timone del carro di Gordio , re di Frigia, era legato con un nodo cosi intricato che nessuno sapeva scioglierlo.
Secondo l’oracolo, colui che vi fosse riuscito avrebbe conquistato il mondo. Moltissimi tentarono l’impresa, ma nessuno vi era mai riuscito. Nel 331 Alessandro Magno, durante la sua impresa contro il re persiano Dario, entrò nella città di Gordio e tagliò il nodo con un colpo di spada. Alessandro conquistò l’Asia, ma la perse subito ed il nodo si riformò.
Il nodo gordiano può essere visto come un nodo di natura sociale e psicologica. Se la spada di Alessandro rappresenta il lampo di genio (la soluzione nella non soluzione), forse scioglierà il nodo, ma se è solo simbolo di un atto di violenza il nodo si riforma.
Psicologicamente il nodo è simbolo di tutto ciò che limita. La pazienza, che scioglie invece di tagliare, assicura la libertà duratura perché basata sulla conoscenza delle cause e delle modalità del nodo e non su un gesto di mera violenza e ribellione

Nell’anello (principio femminile) si introduce l’estremità della corda (principio maschile). Schematicamente questo simbolo figura la forma di otto coricato, come il simbolo matematico dell’infinito. Girando nel nodo la corda ritorna al suo senso primitivo e le intersezioni centrali del laccio formano una doppia croce. Questo giro del nodo ricorda l’alchemico uroboros.

Papus e Wirth vedono il segno dell’infinito anche nel copricapo del Bagatto (Bateleur, il mago).

Papus chiama tale segno:

“il segno divino della vita universale”.
Wirth scrive:
“E’ permesso accostare questo simbolo orizzontale alla sfera vivente costituita dalle emanazioni attive del pensiero. Portiamo attorno a noi il nostro celo naturale, dominio in cui il sole della ragione percorre la sua eclittica ∞ trattenuto negli stretti limiti di ciò che ci è accessibile”.
Anche Eudes Picard definisce il simbolo dell’infinito:
“simbolo della vita e dello spirito universale”.
In realtà il simbolo matematico dell’infinito è più recente dei Tarocchi (1665), ma il nodo dell’amore e la ciclicità che esso rappresenta è invece molto antico e si può definire un archetipo che ha origini remote.
Sono state ritrovate cassette sarcofago egiziane, contenenti serpenti imbalsamati, sul cui coperchio è rappresentato un serpente il cui corpo e intrecciato in un nodo d’amore. Anche la denominazione di “d’amore” sembra corrispondere con l’archetipo di eternità che si perpetua appunto grazie all’amore tra maschio e femmina.

domenica 1 gennaio 2012

MAGIA

Cosa significa la parola “magia”?
C’è chi la ritiene “la scienza delle scienze” e chi la considera frutto della superstizione e dell’ignoranza.
Chi ha ragione?
Per rispondere a questa domanda occorre riferirsi agli studi di chi ha studiato e conosciuto tale fenomeno, cercando di evitare stereotipi e preconcetti.
Occorre capire l’etimologia della parola “magia”.

Giuliano Kremmerz, (al secolo Ciro Formisano, medico omeopata napoletano dell’800), al riguardo dice:
“Tra il materialismo scientifico e il misticismo di oltre tomba c’é un tratto inesplorato che cangia ai due estremi il loro carattere di inflessibile esclusività, e che la scienza dell’uomo é nello stato intermedio di vita e di morte che fu detto MAG, rivelatore dell’esponente ignorato e potentissimo della natura umana” (G. Kremmerz, 1951. P.8)
Secondo Kremmerz il vocabolo magia deriva dunque da MAG che è uno stato particolare dell’uomo, in cui si manifestano dei particolari poteri.
Louis Chochod sembra concordare con Kremmerz e scrive:
“La magia è un’arte speciale che si fonda sulla esistenza di forze naturali, poco note o mal note, normalmente sottratte al potere degli uomini. Conoscere tali forze, incanalarle, e in una certa misura utilizzarle, tale e l’oggetto dell’arte magica”.(Chochod, 1979, p.9)
E ancora Chochod dice:
“Una tradizione attribuisce alla magia il sapere per eccellenza”. (Ibidem p.25)
Maurice Bouisson, va oltre:
“ […] l’appellativo di mago proveniva da una tribù di origine non ariana che, insieme ad altre tribù ariane, popolo anticamente la Media [...] I magi costituivano la casta sacerdotale. La citta di Hagmatana, l’odierna Hamdan, veniva chiamata dai greci Ebactana-dei-magi. Di questa casta facevano parte indovini, astrologi, interpreti di sogni, aruspici".(Bouisson, 1962, p.18)
Seconodo Dumas (Dumas, 1968) gli esperti in cose magiche guarivano i malati.
Ma se andiamo a guardare alla tradizione iniziatica della magia dei Misteri Eleusini troviamo che essa è principalmente uno strumento conoscitivo e religioso
Nei Misteri Eleusini vi era una netta distinzione tra la parte essoterica che aveva una massiccia partecipazione popolare, e quella esoterica riservata ad una ristrettissima cerchia di iniziati.
Secondo Colli (1978) i Misteri Eleusini sono una tecnica conoscitiva di tipo “sciamanico”. Durante le cerimonie dei Misteri Eleusini, , gli iniziati miravano ad ottenere una “visione suprema”, indescrivibile e profonda (qualcosa che a chi scrive sembra analoga alla visione di Ermete nel Pimander).
Tramite la “visione degli dei”, l’iniziato acquisiva anche poteri taumaturgici divenendo in grado di alleviare i mali corporei.
Tommaso Campanella, praticava la Magia naturalis, che a suo dire gli permetteva di mettersi in comunicazione diretta con Dio,
Nel proemio alla sua Metafisica egli scrive:
“Conoscenza vera si ha per un diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto. L’uomo conosce (sapit) in quanto fa suo il Sapore della cosa”. (Garin E., 1970, p.247).
Secondo Campanella per conoscere realmente un oggetto bisogna compenetrarsi con esso per assaporarne la vera essenza. Occorre dunque superara la finitezza di se stessi e dell’oggetto per stabilre con esso un rapporto; occorre “amarlo” e cosi entrare in contatto con il divino. Tale concezione rimanda al precetto religioso universale che dice che amando senza egoismi il mondo si ama anche anche l’Essere Supremo suo creatore. Come nei Misteri Eleusini occorre annullarsi nel divino attraverso il contatto speciale con le cose del mondo
Tale condizione di consapevolezza rende l’iniziato “diverso”. Al ruguardo Elémire Zolla asserisce che per conseguire l’estasi visionaria l’iniziato deve:
“strapparsi di dosso se stesso, la sua personalità sociale, le sue beghe e piccole preoccupazioni”. (Zolla E., 1978).
Tale condizione ricercata dall’iniziato è un modo di “vedere” , "assaporare" e "percepire" diverso dall’ordinario e più profondo, un sentiero che agli occhi profani lo fa sembrare “folle”. Ma è proprio tale “follia” la chiave della dimensione magico-esoterica. dimensione infinita.
I cosiddetti “poteri” che si otterrebbero in tale stato di “follia” sono però da ritenersi un mero effetto marginale, ma lo scopo principale è la conoscenza, la visione del divino.

Gandolfo Dominici

Fonti:
-Bouisson, La Magia, Sugarco, 1962.
-Chochod L., Storia della Magia,Mursia, 1979.
-Colli G., La sapienza greca vol. I, Adelphi, 1978.
-Dumas F. R., Storia della Magia, Mediterranee , 1968.
-Garin E., umanesimo Italiano, La Terza , 1970.
-Kremmerz G., Opera Omia. Il mondo segreto, Editrice Universale , 1951.
-La Porta G., Giordano Bruno , Bompiani, 2010
-Zolla E. , I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978.