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sabato 16 luglio 2011

ESOTERISMO DELLA CITTA' DEL SOLE

“E’ ‘l bel morir, che fa gl’huomini Dei,
ove solo il valor saggio, e virile
della sua gloria spiega i gran trophei.

Qui dolce libertà l’alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile”.

Sonetto di T.Campanella
E’ opinione comune tra gli studiosi e i lettori della “Città del Sole” che il celebre saggio di Tommaso Campanella altro non sia che la metafora dotta di un’ideale e utopistica repubblica platonica, foggiata dal filosofo calabrese sulle sue intuizioni monarco-universalistiche finalizzate al rovesciamento del dominio spagnolo in Italia.

Non è così, o almeno non è solo così. La Città del Sole è anche o (forse) soltanto la rappresentazione simbolica dell’uomo descritto nelle sue parti occulte e palesi e nelle sue aspirazioni alla liberazione e all’immortalità; il saggio contiene in poche parole la descrizione di una via iniziatica che avrebbe nella “Prattica dell’estasi filosofica” un approccio specifico e nella Città del Sole un edificio o meglio un Tempio ideale simbolizzato dall’uomo stesso “che il bel morire” ha elevato a dio.

L’ipotesi però che la Città del Sole possa occultare nella sua architettura il percorso iniziatico dell’uomo, non esclude affatto l’opinione dei più e cioè che il saggio sia nato dall’idea politica di una repubblica teocratica e solare: anzi, da un diverso punto di vista, questa opinione potrebbe uscire rafforzata dalla nostra ipotesi, in quanto nessuna repubblica di quel tipo potrebbe realizzarsi senza una preventiva conoscenza e trasformazione dell’uomo; come nella “Divina Commedia” di Dante per la quale non si poteva supporre cosa in essa si nascondesse fino a quando il Valli non ne rivelò il linguaggio segreto, così nella Città del Sole non si può intravedere il dramma palingenetico dell’uomo verso l’immortalità, senza riconoscerne il carattere esoterico.

Un interessante indizio a quel che andiamo dicendo lo troviamo nella seguente nota di Reghini alla “Prattica” su menzionata attibuita al Campanella. Dice Reghini:

“La tecnica dell’estasi filosofica si trova esposta più o meno copertamente in vari testi; essa costituisce del resto un arcano, è ineffabile per necessità di cose.
Nella letteratura filosofica italiana si trova una magnifica pagina, da alcuni attribuita al Campanella, da altri al Bruno, e che è degna dell’uno e dell’altro; il documento porta il titolo “La prattica (sic) dell’Estasi Filosofica”.
Si sente in essa la sicurezza di chi parla per esperienza propria; la pratica della contemplazione, i suoi effetti, tutto è delineato con limpidità e precisione meravigliosa.
E’ una pagina insuperata della letteratura tecnica iniziatica, e la tradizione esoterica occidentale per opera di questo neo-pitagorico dell’Italia meridionale getta vividi bagliori di luce, sfidando eroicamente l’ignoranza e la ferocia cristiana. Non ci sembra che tra i transalpini ce ne siano molti che possano competere per sapienza metafisica con questo erede ed esponente della Scuola Italica.
Sopra l’esperienza dell’estasi filosofica si basa, secondo noi, il dramma mistico della morte e resurrezione dei misteri.
Lo sviluppo naturalistico di questa concezione è integrato e illuminato dalla conoscenza del fenomeno della palingenesi, il quale costituendo una possibilità organica della vita umana, deve essere stato noto anche in antico.
Nel Vedanta la condizione della coscienza durante l’estasi è chiamata sandhia (derivato da sandhi, punto di contatto o di unione tra due cose) cioè intermezzo tra il sonno profondo (sushupti) e la morte.”
(Arturo Reghini, Dizionario Filologico, Ignis, 2004).
A nostro avviso l’accostamento fatto dal Reghini tra la “Prattica” del Campanella e la tradizione vedica non è casuale; è rivelatore di una stretta parentela tra questa tecnica pitagorica e quella yogica che potrebbe avere avuto nella Città del Sole, dove Sole, il sommo sacerdote, è assistito da tre altri capi detti: Pon, Sin e Mor, un’applicazione più complessa e probabilmente esoterica.

Veniamo ad un raffronto più ravvicinato tra le due “vie”: quella campanelliana e quella vedica:
La prattica dell’estasi filosofica, nella quale come dice R. si nasconde un arcano, è la seguente:
“Bisogna eleggere un luogo, nel quale non si senti strepito d’alcuna materia, all’oscuro o al barlume d’un piccolo lume così dietro che non percuota negli occhi, o con occhi serrati.
In un tempo quieto et quando l’uomo si sente spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’animo.
In quanto al corpo, non senta nè freddo, nè caldo, non senta in alcun parte dolore, la testa scarica di catarro e de fumi del cibo e di qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, nè abbia appetito nè di mangiare, nè di bere, nè di purgarsi, nè di qualsivoglia cosa; stia in luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla man sinistra, o in altra maniera più comoda...
l’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato nè da mestizia o dolore o allegrezza o timore o speranza, non pensieri amorosi o di cure famigliari o di cose proprie o d’altri, non di memoria di cose passate o d’oggetti presenti; ma essendosi accomodato il corpo come sopra, dee mettersi là, et scacciar di mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa, et quando viene uno subito scacciarlo, et quando ne viene un altro subito anco lui scacciare insino che non ne venendo più, non si pensi a niente del tutto, et che si resta del tutto insensato interiormente et esteriormente, et diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale; et così l’anima non essendo occupata in alcuna azione nè vegetabile, nè animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli elementi intellettuali purgata da tutte le cose sensibili,non intende le cose più per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: fatta Angelo vede intuitivamente l’essentia stessa delle cose nella loro semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si potrebbe speculare; perciocchè avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello che si vuole o speculare o investigare ed intendere, et quando l’Anima si trova depurata proporselo davanti, e allora gli parrà d’avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non se gli nasconde verità nessuna.
E allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non vi è piacere in questo mondo che a quello si possa paragonare: nè anco il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo.
In tal maniera che l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vil’opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tale estasi si spiccherebbe al tutto del corpo.
Perciò quelli sottilissimi spiriti nei quali ella dimora se ne sagliano al capo, e però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, dove son gli strumenti intellettuali: e a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morerebbe.
Et però sono più atti a quest’estasi quelli che hanno il cranio aperto per la cui fessura possono esalare alquanto gli spiriti;
altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta, et gli organi per così gran concorso si rendono inabili.
Questa credo che sia l’estasi platonica, della quale fa menzione Porfirio che da questa Plotino sette volte fu rapito et egli una volta; essendochè di rado si trovan tante circostanze in un uomo; contuttociò in due o tre anni potrebbe succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora si intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimenti voi ve le scorderesti, e rileggendole poi non l’intendereste”.
Il punto centrale della “Prattica” è rappresentato certamente dal “distacco” dell’Anima dal corpo che però, se si fa attenzione, si dà per scontato, poichè quando leggiamo la frase l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo non possiamo fare a meno di costatare che il ritorno segue una partenza o distacco già avvenuto: e tutto ciò mentre il corpo continua regolarmente ad essere in vita.

La rassomiglianza con un verso dei “Versi d’Oro” è eclatante.

La “prattica” pitagorica non fornisce all’aspirante una lezione dettagliata sulla fisiologia occulta dell’uomo, ma si limita, per giungere a questo importante “distacco”, a suggerire un “metodo”, metodo che possiamo per comodità suddividere e riassumere in tre parti e che comunque è sufficiente a raggiungere lo scopo:

1. preparazione del corpo.
2. esercizio sul pensiero.
3. esercizio sulla mente.

Nella “Prattica” non si fa alcun cenno ad esercizi respiratori, ma sappiamo da Reghini e da altri discepoli della Scuola Italica che alcuni di questi esercizi rivestivano una certa importanza nei rituali da essi seguiti. Sui risultati le informazioni sono piuttosto sibilline, ma si allude abbastanza spesso a particolari stati di coscienza raggiunti o da raggiungere.

Crediamo perciò che non sia inutile prendere in esame gli insegnamenti più ortodossi della tradizione vedica e vedere cosa si dice a questo proposito, soprattutto perchè è stata dimostrata l’affinità ideologica tra la scuola pitagorica e quella vedantina, e sarebbe opportuno mettere a confronto le esperienze descritte nello yoga indiano con quelle della scuola italica onde fare qualche passo in avanti sulla metodologia che ci proponiamo di studiare.
“Nell’hatha yoga, il motore principale della trasformazione... della mente ordinaria (manas) in una condizione al di là della mente – è di natura pneumatica. –
scrive D. G. White ne “Il corpo alchemico” pag. 56
- E’ il vento, l’elemento dinamico dell’antica triade vedica, che assumendo la forma del respiro controllato svolge un cruciale ruolo trasmutativo nel sistema hathayogico. Quando il respiro è stabile, la mente ed il seme sono stabilizzati; ma, cosa ancor più importante, quando, attraverso il controllo del respiro (pranayama), viene aperta la base del canale centrale, quello stesso respiro causa l’inversione delle polarità ordinarie. Piuttosto che scendere, il seme, l’energia e la mente vengono ora fatti risalire sino alla volta cranica, determinando la totale integrazione yogica (samadhi), l’inversione del flusso del tempo, l’immortalità ed il trascendimento dell’intero universo creato”.
La relazione pertanto tra respiro e testa (cranio) è esplicita, come non si può escludere il fatto che l’inversione del tempo debba essere messo in relazione con il controllo e l’arresto del flusso del pensiero; quest’informazione del White aiuta perciò a comprendere meglio i misteriori accenni di Campanella al “cranio” e agli “spiriti” che possono esalare dalla testa.

Ma le notizie “alchemiche” del White sono ancor più particolareggiate e contribuiscono sapientemente a svelare – almeno in parte - il misterioso “arcano” cui alludeva R. commentando la “Prattica”. Eccone un esempio tratto da una nostra trascrizione ragionata del testo fornito dal White:
“Ancora una volta, sulla base dei dati presenti nei testi tantrici stessi, è possibile ritenere che il Monte della Luna e l’Isola della Luna, sono (...) localizzazioni proprie del corpo sottile allorchè un determinato complesso di pratiche viene portato a compimento. Che si tratti di un paesaggio interiore del corpo sottile si evince già dall’affermazione del K., secondo cui utilizzando la rete dell’energia yogica, (...) M. prese..l’ insegnamento del k. traendolo dai sette cakra, azione inverosimile nel mondo reale.
In questo caso, la montagna o l’isola in questione sono situate nella volta cranica ... sul lato sinistro del corpo (...) su ciò k. afferma che i suoi insegnamenti furono portati quaggiù sull’Isola della Luna, (e) offre delle prove cospicue quando descrive il nettare che stilla dalla ‘fessura del brahman’, ovvero la fontanella come ‘letizia della luna’ e quando associa la postura lunare con la pratica hathayogica ... anch’essa effettuata all’interno della volta cranica.
Questa fonte e altre della Trasmissione Occidentale danno grande rilievo al lato ‘occidentale’ o sinistro del corpo, come al luogo delle trasformazioni più critiche che si verificano nel corpo sottile. (...)
Il monte della Luna si trova ad ovest... della colonna vertebrale sottile che culmina nella sommità della volta cranica.
... l’interpretazione più soddisfacente di questo racconto resta quella allegorica: la Città della luna è il luogo, nel lato sinistro (occidentale) del corpo sottile, ove culmina la pratica hathayogica, attraverso l’interazione dei tre canali principali, qui presenti come ... Sole, Luna e Fuoco.
In successive opere... l’identificazione della volta cranica con il luogo della luna microcosmica diviene un motivo comune”.
Esiste un monumento in pietra scolpito in memoria di T. Campanella che lo raffigura nel suo abito di frate con il piede sinistro appoggiato su due libri e con il mento appoggiato sulla mano sinistra, in una postura cioè che ricorda la descrizione esistente nella “Prattica”. Sarà un caso?...

Ma c’è di più. Apprendiamo dallo stesso White leggendo altri brani del suo libro che la famosa Città della Luna potrebbe benissimo essere una Città del Sole poichè nella tradizione vedantina, alla quale l’autore si rifà, l’inversione tra Luna e Sole non è impossibile e non offende la sensibilità e l’intelligenza dell’operatore come certamente potrebbe accadere in altri luoghi lontano dall’India magica e alchemica. (Alcuni siddha chiamano sole e luna i due canali laterali del corpo sottile).

Nella fisiologia yogica dell’uomo il Sole, localizzato in basso e la Luna, posizionata nella testa, forniscono materia di contemplazione e di studio sulla cui importanza anche l’occultismo occidentale non può fare a meno di soffermarsi.
Scrive a questo riguardo W. che da una parte troviamo insieme la luna e il mercurio e dall’altra il sole e lo zolfo; ne consegue allora che nella Città del Sole dobbiamo riconoscere lo stato successivo a quello della Luna raggiunto nella sommità del cranio in virtù di un
“modello yogico che descrive la separazione yogica dalla coscienza ordinaria ed il ritorno in essa nei termini di un’interazione tra il sole, localizzato nel basso ventre, e la luna collocata nella volta cranica del corpo sottile”.
E’ impossibile non vedere in questi brani somiglianze, analogie, affinità per non dire altro con i punti più “velati” della “Prattica” sui quali, con l’ausilio degli esercizi dell’alchimia indiana, è doveroso tentare di gettare una luce chiarificatrice.
Può essere inoltre un caso che la Città del Sole di C. sia stata fondata da emigranti indiani?
Scrive infatti il filosofo calabrese:
“Questa è una gente ch’arrivò là dall’India, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di Mogori...”.
Questi fuggiaschi, una volta fondata la nuova patria, decidono di vivere in comune; il paradosso di una città che mette tutto in comune, (è un paradosso, perchè lo stesso C. si incarica di precisare che nel loro paese di origine non si pratica questo costume) uomini, donne, beni, se anche ha un illustre precedente nell’utopia platonica, è un nodo da sciogliere e invece di considerarlo un’utopia, lo vedremmo più volentieri come la metafora principale di quest’opera in cui il dualismo filosofico dell’essere e le sue conseguenti antinomie individuali e sociali non possono che essere rappresentate e quindi risolte in un corpo che le trasmuti e le trascenda tutte, dopo averle subite e sofferte. Il miglior modo di rappresentarle è appunto quello usato da C.: comunanza di tutto in una sorta di monachesimo radicale, il tutto nel tutto, il tutto nell’uno.

Quando C. affronta il problema della generazione la metafora si fa più sottile e meno esplicita e perciò più esoterica. La purezza della razza non è il risultato di una semplice norma eugenica e di ingegneria genetica, norme alle quali gli abitanti della repubblica dovrebbero attenersi, bensì il prodotto di una distillazione operatasi nell’atanor di una società fortemente gerarchizzata che nell’impedire ai deboli, agli impuri e agli inetti di andare avanti e di moltiplicarsi, non può che aspirare a una città solare liberata della cadente e degenerata condizione umana, unanimamente considerata uno stato di transizione.

In Occidente, una visione come questa, dopo aver subito l’ostracismo di quasi tutte le istituzioni civili e religiose (risultate vincenti dopo la disgregazione della civiltà greco-romana) rimase appannaggio di ristretti circoli di iniziati, mentre in India dove i sogni e le chimere molto spesso si realizzano, andò ad alimentare gli studi e le tradizioni magico-alchemiche miranti alla perfezione del corpo e alla sua immortalizzazione, che coesistevano armoniosamente e molto spesso collaboravano con una via interiore di separazione e integrazione della coscienza individuale nella coscienza cosmica.

Il breve ma significativo accenno che C. fa ad una rigenerazione del corpo fisico quando afferma che i solari
“hanno pur un secreto di rinovar la vita ogni sette anni, senz’ afflizione, con bell’arte” 
fa pensare molto. Questa frase non può essere spiegata come il ricorso ad una semplice dieta alimentare e ricondotta alla sola salute del corpo perchè il riferimento alla conoscenza di un secreto è netto ed è legato all’esercizio di un’arte, parole tutte che troviamo così usate nel linguaggio degli alchimisti e degli ermetisti. Tanto per essere un pochino più chiari: è la conferma che C. intendeva fare della Città del Sole un modello di vita per esseri che dovevano passare per la prima morte e che attraverso l’esercizio di un’arte si sarebbero avviati all’immortalità dello spirito in congiunto forse anche a quella del corpo.

In India il potere magico di rigenerazione è connesso all’uso di erbe e acque curative sotto il diretto controllo di scuole di alchimisti.
E’ molto probabile che C. si sia soffermato, nel corso dei suoi studi e dei suoi viaggi, sulle numeroseanalogie tra “via bramanica” e via pitagorica senza peraltro escludere un suo interesse per una “via del cinabro” che prevede l’uso spregiudicato dell’apparato fisico-sensorio umano rispetto alle funzioni del corpo sottile che vediamo invece utilizzate e anche molto bene nelle “vie” più specificamente spirituali.
E’ indicativo a questo proposito il fatto che nel parlare di arte militare e guerriera i solari, dice C.,
"non temono la morte, perchè tutti credono l’immortalità dell’anima, e che, morendo, s’accompagnino con li spiriti buoni o rei, secondo i meriti. Benchè essi siano stati bragmani pitagorici, non credono trasmigrazione d’anima, se non per qualche giudizio di Dio”.
Cosa abbia spinto C. ad affermare che i solari credono nell’immortalità dell’anima e non nella trasmigrazione d’essa (a meno che non sia decretata da Dio) e quindi a distanziarsi da un aspetto non secondario del pensiero bramanico e pitagorico è difficile dirlo: la dottrina cattolica nega la legge del karma, fu quindi per calcolo religioso o per convenienza politica?

Per la verità la Città del Sole è un imponente edificio politico e sociale dotato di inconsueti strumenti di governo e di una morale che hanno ben poco o nulla in comune con i principi della dottrina cristiana; gli scarsi accenni che C. concede alla tradizione cristiana crediamo siano dovuti più che altro alla necessità da parte sua di salvaguardare il suo scritto dai numerosi nemici che dentro e fuori la Chiesa tramavano ai suoi danni e aspettavano la sua rovina.
Per riuscire nel suo intento C. si servì di alcuni stratagemmi: quello della pazzia che finse di fronte ai torturatori della Santa Inquisazione e quello dell’allegoria con cui rivestì alcuni suoi scritti importanti tra i quali siamo propensi a mettere la Città del Sole.

Un’ultima riflessione, prima di terminare, va fatta sulla numerologia della Città del Sole che meriterebbe un trattato a parte. Infatti, tra la posizione astrologica e il movimento dei sette pianeti in relazione ai sette gironi che portano i nomi dei pianeti stessi di cui è composta la città ed i sette centri vitali dell’uomo (i sette chakra di cui parla il W. nel suo trattato alchemico) esiste una strettissima relazione. Un indizio in più per affermare che dietro l’urbe campanelliana si staglia la possente figura dell’uomo sulla via della divinizzazione.

Concludiamo col dire che questi sono dei semplici appunti, basati su alcune intuizioni e non hanno la pretesa di costituire uno studio vero e proprio: possono solo rappresentare un punto di partenza e di incentivo per un’analisi più dotta e più estesa che affidiamo a chi saprà e vorrà farla.

Dalla zattera oceanica in un giorno del mese januario...

di Tommaso LOLI

FONTE:
http://aignis.sites.uol.com.br/flauto_di_pan.htm