L'anima e il corpo
La visione intuitiva del problema mente/corpo è quella dualista; è questo un pre-supposto spesso implicito radicato nel nostro modo di sentire ordinario. La ragione storica è sicuramente molto ben delineata, ed affonda nella tradizione giudaica, aristotelica, cattolica, cartesiana. Già nell'abbrivio dell'Antico Testamento leggiamo che "lo spirito di Dio aleggiava sulle acque" [Gen, 1,2]. E, di seguito, Dio crea l'uomo infondendogli la vita che è il suo respiro:
«Dio il SIGNORE [YHWH] formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici l'alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente (ebr. Nèfesh hachaiyàh; latino animam viventem; greco psychè ton zòion). » [Gen, 1,7].
Anima è termine semanticamente sovradeterminato, potendosi ricomprendere in esso il soffio in senso materiale (il pneuma), la mente (psyché), la vita, la personalità, l'individualità, ecc.
La visione arstotelica, nel distinguere una materia (yle) da una forma (eidos, secondo l'ascendente platonico, ma anche, diversamente, morfé, come forma in senso iconico ,e a volte, razionalisticamente, logos), assume l'ente come sinolo delle due; e questo è il fondamento della definizione tomistica di uomo come unione di corpo e anima che diviene canone definitivo per la dottrina cattolica.
Cartesio, nel determinare la nascita della filosofia moderna, con il suo drastico mutamento del punto di partenza, che si sposta per sempre dall'oggetto conosciuto al soggetto conoscente, con il suo rivoluzionario cogito, perviene in fine al più esplicito, eclatante, insanabile dualismo tra res cogitans eres extensa: il regno delle idee e del libero arbitrio, da una parte, il meccanicismo deterministico dall'altra.
Nella metà del secolo scorso, quando, sul nascere dell'intelligenza artificiale, si cercò una definizione di intelligenza che potesse ricomprendere sotto una più ampia generalità tanto l'intelligenza umana quanto quella delle macchine, i così detti padri fondatori delinearono il celebre paradigma del sistema fisico/simbolico: intelligenza è capacità di elaborare simboli sopra un processore materiale.
In conclusione, nessuno potrebbe sostenere che la fanfara del dualismo non gli sia mai risuonata nelle orecchie, magari mentre pensava ad altro.
Ma, sgombrando la nostra riflessione da ogni pre-giudizio, come si confugura la questione nella sua formale generalità?
L'uno e i molti
All'orgine della questione dobbiamo mettere il problema di fondo, il primo, il più essenziale dei problemi, quello dell'essere in quanto tale, dell'essere senza alcuna specificazione. La domanda da cui ogni altra discende è dunque se qualche cosa vi sia, e che cosa eventualmente essa sia. Tale è la domanda originale, quella stessa che molti, troppi approcci moderni hanno tentato in ogni modo di eludere, bollandola di "metafisicità", di scarsa chiarezza, di essere un non senso; l'hanno negata non comprendendo che la loro eventuale (per puro assurdo) vittoria avrebbe conseguentemente vanificato loro stessi (come ogni altra cosa, del resto).
Partendo dal minimo impegno ontologico possibile, potremo cominciare a stabilire per intanto, chel'essere è uno o non è uno, e cioè è molti; il caso al di sotto dell'uno non potendo verificarsi senza che scomparisse la nostra stessa argomentazione. Ecco dunque la prima ipotesi, l'essere è uno: il monismo. L'esempio più paradigmatico è senza ombra di dubbio Spinoza, il Deus sive Natura: il Tutto, Dio, la Natura, il Mondo sono la stessa, una stessa cosa. Pensiero ed estensione, il modo cartesiano di dire mente/corpo, non hanno allora carattere cosale, ma sono due degli infiniti attributi del Tutto, i due soli che si porgono alla nostra conoscenza. Il loro statuto ontologico è quello del darsi come modalità, come modi di essere, come facce della stessa oggettualità.
Se rifiutiamo questa assunzione, di mente/corpo come modi, e seguiamo la via opposta della loro sostanzializzazione, allora ci si presenta da subito una ulteriore alternativa, e cioè che il reale sia costituito tutto dall'una o dall'altro. Così avremo il materialismo, sotto l'ipotesi della corporeità, o lo spiritualismo, o l'idealismo (in senso non platonico) sotto l'altra. Si pensi all'atomismo di Democrito, o, modernamente, al marxismo ad esemplificazione del primo caso, e all'idealismo fichtiano nel secondo, là dove il non-io, il mondo, diviene residuo dell'attività dell'io. Una variazione significativa può allora essere quella di assumere ciò che vi è come non riconducibile né al mentale né al corporeo, ma a qualcosa di indistinto rispetto a tale contrapposizione, o comunque di diverso da entrambi. E' questo il caso del così detto monismo neutro di Russell (nella sua veste originale o nella riproposizione di Davidson), secondo il quale l'uomo si troverebbe in un punto intermedio di un continuum che gli appare mentale nelle sue forme superiori e materiale in quelle inferiori.
Negare l'ipotesi monistica, e al di fuori del dualismo, del quale stiamo appunto analizzando le alternative, conduce poi al pluralismo: se un solo tipo di cosalità non basta, perché, negata l'unicità, ci si dovrebbe fermare a due? Si prenda ad esempio Leibniz: il reale è costituito da monadi, e queste sono né una nè due, ma al contrario infinite. D'altra parte, perché un Dio creatore, onnipotente, avrebbe dovuto risparmiare sugli enti? All'opposto, la ricchezza ontologica del creato definisce il migliore dei mondi possibili proprio come la realizzazione del massimo di compossibilità. Il reale diviene l'esito di un processo calcolistico di ottimizzazione, contrapposto antitetico del rasoio di Okham (che pure lo stesso Leibniz fa proprio in sede di logica). Le monadi essendo punti metafisici, ma anche, altrettanto, rappresentazioni, possone essere ricomprese come menti. La materia è allora antitipia, resistenza residua, correlata, ancorché non con-fusa in un sinolo, con la monade. Il problema del rapporto mente/corpo, relegato da Cartesio entro i poco sicuri confini della ghiandola pineale, viene allora ridefinito come hypothesis concomitantiae: la perfezione del creatore è garanzia certa di perpetua sincronia; così che, proprio quando io penso di prendere la penna, il mio braccio la prende, non perché qualcosa transiti effettivamente dalla mente al corpo, ma perché si realizzi la concomitanza stabilita ab initio. Difficile da credere? Forse non più che una volizione si faccia legge meccanica, sotto l'ipotesi dualista.
Il modo canonico di esporre la gerarchia delle monadi è secondo la metafora della luce, quella stessa che il Paradiso dantesco ha nobilitato in letteratura: dalla monade totalmente illuminata, la monade-dio, alla monade correlata alla materia inanimata, mente totalmente buia, priva di attività, e tuttavia, lo stesso, mente: come la nostra, in una notte senza sogni.
Forse è meglio pensarci ancora un po'
Sul versante operativo, un po' di luce ci viene dal tentativo di riprodurre l'intelligenza. Dell'ipotesi del sistema fisico-simbolico s'è detto. All'opposto, chi si è ispirato al cervello come organo è approdato al paradigma connessionista: il cervello è una rete di neuroni, oggetti oltremodo semplici, ma in grado di aggregarsi e interagire generando sistemi di enorme complessità, olisticamente dotati di capacità impensabili come somma delle abilità locali. Il pensiero allora sarebbe il secreto del cervello, senza un modello teorico razionalisticamente precostituito, ma progressivamente determinato nei millenni dalle leggi della selezione naturale. Così, il cervello pensa come lo stomaco digerisce, senza un telos, senza, sopra tutto, alcun intervento della trascendenza.
Sulla sponda opposta, i cognitivisti si dibattono nell'imbarazzo di spiegare cosa di assolutamente non fisico possa sostanziare il mentale, e come esso possa causare lo spostamente di un chilo per un metro; su questa, un disagio forse non inferiore si avrà a dover sostenere per che soglie e per che pesi si possa realizzare una fuga di Bach, o il conte Ugolino.