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sabato 18 giugno 2011

Il processo di Conoscenza: invenzione o riscoperta?

L’Io e il Sé 
La relazione Io/Sé è l’asse portante della concezione junghiana della psiche. 
Il Sé abbraccia coscienza ed inconscio, è la somma del potenziale di un individuo e la totalità della sua personalità, è allo stesso tempo il centro unificatore e il perimetro di tale totalità. 
L’Io invece è il centro del campo di coscienza di un individuo, non coincide con la totalità della sua psiche, è solo il soggetto della sua coscienza, mentre il soggetto della sua psiche totale, che comprende  anche  l’inconscio personale e collettivo, è il Sé. L’Io, in quanto centro della coscienza del soggetto, possiede un alto grado di continuità ed identità con se stesso, costituisce il senso, la percezione che l’individuo ha della propria identità che, malgrado molteplici mutamenti, continua a sentire stabile ed uguale nel tempo. 
Al proprio io/coscienza l’individuo riferisce tutte le sue esperienze, sia quelle interne, sia quelle esterne. 
La relazione che intercorre tra l’Io e il Sé è di due tipi: il Sé infatti, è sia il momento iniziale della vita psichica,sia la sua realizzazione e meta. 
All’inizio il Sé è antecedente all’Io/coscienza che emerge dal Sé, in questo caso il Sé è visto come l’espressione indifferenziata di tutte le possibilità umanedal quale l’Io si emancipa affermando identità e differenze proprie al particolare individuo a cui quell’io appartiene, ed uscendo così dalla notte dell’indifferenziato. 
 Come meta e momento ulteriore e più vasto rispetto all’ambito circoscritto dell’io/coscienza, il Sé diventa l’orizzonte per una nuova ricerca di senso e significato nella costruzione dell’Io. 
Questa seconda figura del Sé diventa attiva nella seconda parte della vita, quando l’Io è abbastanza forte per reggere il confronto con il Sé. Questo  percorso  costituisce  il  processo  d’individuazione,  il  cui  scopo  è  il raggiungimento della propria autenticità, di ciò che “essenzialmente” ognuno “è”. 

L’inconscio personale e l’inconscio collettivo. 
Come per  Freud  anche per  Jung  l’inconscio  è  un  costrutto  ipotetico che si può solo inferire, poiché per definizione non è osservabile direttamente.  
Tuttavia, per  Jung  l’inconscio è  la  radice della coscienza e perciò  la precede, mentre per Freud  l’inconscio è il prodotto della rimozione e perciò segue la coscienza. 
Per Jung  l’inconscio non contiene solo  tracce di esperienze dimenticate o rimosse  (inconscio personale), ma anche uno strato più profondo dove è depositato il patrimonio psicologico dell’umanità, che egli chiama:  l’inconscio collettivo. 
L’inconscio collettivo, quindi, si distingue dall’inconscio personale o individuale, che è diverso in ogni individuo, in quanto, mentre in quest’ultimo ci sono contenuti, derivanti dalla propria esperienza personale, che un tempo erano consci e in seguito sono scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi; i contenuti dell’inconscio collettivo,  invece,  non sono mai stati nella coscienza, ma sono  “ereditati”, in quanto fanno parte del patrimonio ereditario comune a tutti gli uomini. 
Il contenuto  dell’inconscio personale, secondo Jung,  è formato soprattutto da  “complessi”, mentre,  quello dell’inconscio collettivo è costituito essenzialmente da “archetipi” . 

Archetipi 
Della nozione di archetipo Jung da due versioni. 
Nella prima, gli archetipi sono forme a priori che organizzano l’esperienza, “modelli di comportamento innati”, come esempio Jung porta “il pulcino che non ha imparato il modo con cui uscirà dall’uovo, ma lo possiede a priori”.   
Gli archetipi sono  ereditati,  sono  forme  a  priori  d’apprendimento,  disposizioni  a  fare  esperienza  in  un modo  piuttosto che in un altro, non sono determinati dal punto di vista del contenuto, ma solo della forma, e anche qui in misura limitata. 
Nella seconda accezione l’archetipo è un’immagine primordiale, una  figura o processo  che  si  ripete ne corso della storia, primariamente è una figura mitologica, che si può considerare come la risultante d’innumerevoli esperienze tipiche di tutta l’umanità passata e presente.  
Tali immagini o figure archetipe abitano nell’inconscio collettivo di ogni uomo e data la loro potente vitalità simbolica godono di una certa autonomia ed è possibile che si liberino da ogni controllo cosciente.  

La Conoscenza 
Secondo Jung, quindi, l’inconscio collettivo è un bagaglio di conoscenza e saperea livello inconscio, comune a tutto il genere umano, che noi ereditiamo dai nostri “antenati” e che deriva dal patrimonio di esperienze, consce ed inconsce, vissute da chi ci ha proceduto. 
Secondo diversi dizionari la conoscenza viene genericamente definita quale la consapevolezza e la comprensione di fatti, verità o informazioni ottenuti attraverso l'esperienza o l'apprendimento (a posteriori), ovvero tramite l'introspezione (a priori).  La conoscenza, quindi, è un termine che ha significati diversi a seconda del contesto e dell’accezione che gli viene data.  
Non volendo entrare nel merito della moltitudine di accezioni storicamente attribuite  a tale concetto, chiariamo subito che ai fini del presente lavoro per Conoscenza ci riferiamo a “quella con la C maiuscola”, ossia a quella che la Bibbia chiama “Sapienza”, quella che potremmo in breve definire la “Conoscenza del Tutto”, ciò cui  l’uomo da sempre anela, spinto dalla sua insopprimibile esigenza di rispondere alle sempiterne domande: “chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo”. Domande alle quali ha risposto (o tentato di rispondere) con la filosofia, la religione e le altre forme di espressione della spiritualità e che costituiscono quella “prisca theologia” o, se preferite, la Tradizione che gli iniziati in ogni tempo hanno cercato di trasmettersi l’un l’altro.  
 È forse questo l’inconscio collettivo di cui abbiamo appena parlato ? 
Platone  chiama «filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legataa un'espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. Quando afferma ciò, Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i  «sapienti», egli, infatti, considera  l'amore della sapienza quell’aspirazione, quella tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto. 
Quando Platone  fa dire a Socrate che
«ogni acquisizione di conoscenza non è altro che un riallacciarsi a qualcosa che si sapeva già» (Faed., 72e),
attribuisce a questo sapere un'istanza differente da quella del corpo, e crea così una provincia psichica separata che definisce anima.  
Se il sapere esisteva prima, ovvero prima del corpo, non gli appartiene, è staccato da questo e ci si può ricollegare al primo solo sbarazzandosi del secondo. È proprio attraverso il postulato che esiste una conoscenza anteriore, che Platone arriverà a riconoscere l'esistenza dell'anima e la sua immortalità (Faed., 73a). 
Una leggenda ebraica  racconta che la ragione per la quale l'uomo, prima di nascere, deve passare nove mesi nel ventre della madre è che lì l'Arcangelo Gabriele gli insegna tutta la Torà, quella scritta e quella orale. Per nove mesi, con una candela accesa sulla testa, l'uomo impara tutta la Legge e, solo quando è pronto, può uscire alla luce del mondo. Un istante prima della nascita l'angelo gli  spegne con un soffio la fiammella e il bambino dimentica tutto: tutta la sua vita dovrà essere dedicata allo studio della Torà, a cercare di ricordarsi quello che aveva già imparato. Gli viene spenta la fiammella che portava sulla testa nel ventre della madre e questa viene sostituita dalla luce del mondo esterno. Nei meandri oscuri del ventre materno aveva una luce interna, questa si spegne e al suo posto viene la luce del sole, abbaglia invece di illuminare. Per questo, continua la leggenda ebraica, il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto. 
Il neonato piange poiché non sa più o, per meglio dire, non ricorda più ciò che già sapeva. 
Sempre la tradizione ebraica dice, inoltre, che Dio diede a Mosè sul monte Sinai, nei quaranta giorni della sua  permanenza, non solo la Legge scritta, ma bensì anche tutta quella orale, la Mischnà, ilTalmud, i Commentari e i Responsa dei rabbini, tutto il sapere attuale e anche quello che verrà composto secoli e millenni dopo, e lo scopo di tutto lo studio e delle discussioni nelle scuole e nelleyeshivot  è quello di riscoprire, attraverso il  pilpul  e il confronto intellettuale, quello che Dio aveva già dato a Mosè. 
Per  la tradizione ebraica,  quindi,  come per gli antichi greci, la vera Sapienza non è quella «inventata», bensì quella «ricuperata» dai recessi più reconditi della nostra memoria e, quindi, già presente in noi stessi. 
Ovviamente, anche la  tradizione cristiana, che a quella greca ed ebraica deve le sue origini storiche e culturali, ritiene che la Conoscenza o, in senso più fideistico, la Verità, sia preesistente e non già una scoperta/invenzione dell’uomo. 
In uno dei più celebri passi del Genesi si legge:
"[…] Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male [...]
Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti…» (Genesi 2,9-16).
Strano, quando l'uomo viene tentato, non sceglie l'albero della vita ma quello della conoscenza. Anche la proibizione divina non è verso il primo, ma bensì verso il secondo
Dio, quindi, non temeva che l'uomo si cibasse dell'albero della vita, prima che si fosse cibato dell'albero della conoscenza, ma  solo dopo.  E  ciò perché evidentemente sapeva chel'uomo «rischiava» di voler vivere eternamente solo dopo aver assaggiato la conoscenza. 
«[…] Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dall'albero della vita, ne mangi e viva sempre... Scacciò l'uomo e pose a oriente del Giardino dell'Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita […]» (Genesi 3,22-4).
Prima di aver assaggiato dell'albero della conoscenza, quindi, l'uomo non aveva nemmeno realizzato che l'albero della vita era lì, a un passo di distanza, al centro del Giardino. L'albero della vita è nel centro del Giardino, ma la strada verso di esso passa per l'albero della conoscenza. Se  l'uomo non avesse assaggiato del secondo non avrebbe saputo cosa farsene del primo.  
Il senso del racconto biblico è, quindi, che solo attraverso la Conoscenza ci si avvicina all'albero della vita: è attraverso la Conoscenza che si arriva a superare la vita e la morte, che in questo contesto sono un'unica cosa. 
Cacciato dal Giardino, dove aveva preso contatto con la conoscenza, l'uomo viene condannato al lavoro. In ebraico, in tutta la letteratura sacra, il lavoro, «'avodà», è il lavoro del Signore, lo studio della Torà. Quindi il lavoro al quale viene condannato l'uomo, dopo essere stato cacciato dall'Eden, è la fatica di cercare di ricollegarsi a quello che aveva già assaporato dentro il Giardino, dentro il ventre materno, come ci racconta la leggenda ebraica, e che era stato rimosso.  
La cacciata dal Paradiso Terrestre corrisponde dunque alla rimozione, il dimenticare quello che si aveva già saputo. Il desiderio di sapere è dunque la sostanza della maledizione biblica. Infattisolo l'uomo, tra tutti gli animali presenti nell’Eden, è condannato al lavoro: il bisogno di sapere
Si capisce ora, forse meglio, il senso del famoso oracolo di Delfi:  «conosci te stesso», in ciò intendendosi dunque: prendi contatto con te stesso, con la tua vera essenza.  E ciò perché, evidentemente, risultava sottinteso che questo contatto con se stessi era un tempo presente ed ora risulta rimosso.  
Da qui anche, l'ambiguità, l'oscurità, l'allusività ardua da decifrare, l'incertezza; in altre parolel’esigenza di parlare velato, per mezzo del mito, della simbologia o dell’allegoria. Queste caratteristiche dell'oracolo di Apollo sono quelle di ogni materiale rimosso, che viene, per mezzo di queste, mantenuto tale.  
Ecco che si comprende il perché dell'aspetto minaccioso di Apollo, poiché certi segreti spettano ai sapienti, cioè a coloro che possono misurarsi con i segreti terribili. Chi non è in grado di misurarsi con essi, ovvero con la sostanza esistenziale di questa conoscenza, viene messo in grave pericolo. Apollo rivela i suoi terribili segreti solo a coloro (= gli iniziati) che sono degni di decodificare l’enigma.  
Tra gli ebrei esiste la tradizione che solo chi abbia compiuto quarant'anni e abbia studiato a sufficienza la Torà, possa avvicinarsi ai segreti della Cabala, altrimenti rischia la morte o la follia. I segreti più nascosti della Torà possono essere svelati solo alla ristretta cerchia di chi, con lo studio e l’approfondimento spirituale, abbia “gradualmente” (in almeno quarant’anni) dimostrato di esserne degno. 
Concetto che è familiare anche alla Tradizione Cristiana, per la quale è sufficiente ricordare la massima evangelica secondo la quale Gesù, rivolgendosi ai propri apostoli (= iniziati) ha detto:
"Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi..."(Matteo, 7-6).
Secondo, quindi, le maggiori tradizioni culturali e sociali, che costituiscono il patrimonio ed il fondamento della Tradizione Esoterica occidentale, il processo per pervenire alla Conoscenza è eminentemente un processo di ricollegamento a ciò che è già in noi, ossia alla Sapienza che ci proviene da Dio e che abbiamo rimosso. Si tratta, quindi, di una sapienza imparata, ma imparata non da un magico fiat filosofico o trascendentale o, ancora peggio, attraverso una catena dialettica di razionalizzazioni, bensì dalla ripresa di conoscenza di se stessi, attraverso il ricollegarsi a quello che si sapeva già, ma che era andato perduto. 
La differenza tra  il profano e l’iniziato, quindi, consiste nel fatto che il primo  “non sa di sapere”, mentre il secondo,  “sa  di  sapere  e di non ricordare”.  Per l’iniziato,  quindi, conoscere vuol dire prendere contatto, ricollegarsi con la propria intima essenza, con la propria scintilla divina: quel particolare in noi che ci connette con il Tutto, con l’Assoluto. 
Ma l’iniziato sa anche che tale “ricollegamento” non può avvenire nel corso della nostra vita terrena, ecco perché sceglie di “morire” e “rinascere”, proprio perché sa  di non avere, in vita,  gli strumenti per arrivare alla conoscenza: l'aldiquà non gli  basta, è necessario affacciarsi nell’aldilà. Ciò che, forse, chiarisce meglio il senso rituale e simbolico del grado di maestro, che ci viene, infatti,  presentato quale il grado nel quale lo scopo principale è quello di prepararsi a morire. 

Ma tornando all’argomento di questo lavoro, risulta forse più chiaro, adesso, cosa sia l’Inconscio Esoterico.   
Esso è quel patrimonio di conoscenza, che ci proviene direttamente da Dio, che è già in noi, anzi, per meglio dire, che è sempre stato in noi, mai a livello cosciente, ed al quale tendiamo di “riconnetterci” da sempre. E siccome si tratta di una conoscenza di carattere “metafisico”, nulla di quanto è  stato nel passato “ricordato” è diverso o sarà diverso da quanto, anche nel futuro più remoto, sarà “ricordato”.  
Ciò che tiriamo fuori, ciò che ricordiamo dal nostro inconscio esoterico è, per sua natura (provenendoci da Dio), immutabile e non suscettibile di evoluzione o progresso. Ciò che può mutare, spesso distorcendolo, sono le forme di trasmissione e di comunicazione di tale sapere.  
Ecco perché il mezzo di trasmissione della “Tradizione Esoterica” è sempre stato per mezzo di simboli ed allegorie, perché essi sono gli unici mezzi di comunicazione, conosciuti dall’uomo, impermeabili alle distorsioni ed interpretazioni fallaci.  

L’Inconscio Esoterico 
Abbiamo visto, quindi, che esiste un “inconscio collettivo” patrimonio di tutti gli uomini, che proprio perché “inconscio” non affiora ai livelli della conoscenza. 
In questo inconscio sono racchiuse e contenute tutte le conoscenze e le esperienze che l’uomo ha vissuto sin dagli albori della sua esistenza cosciente.  
La psiche di ogni uomo ha in se tutto il bagaglio delle reminiscenze dell’umanità trascorsa.  
Questo concetto non è nuovo,  in quanto è già stato espresso secoli fa da Platone quando parla e dimostra la “reminiscenza dell’anima”.  
Il merito di Jung è quello di avere portato nel “sociale” quello che era un concetto “filosofico”. 
In ogni uomo è conservata, ma egli non ne è cosciente proprio in quanto parte dell’inconscio, tutta la storia, l’esperienza dell’umanità e dei suoi misteri dal momento della creazione.  
Esiste, quindi, la possibilità di attingere a questo patrimonio nascosto.  
Ma non dobbiamo identificare l’inconscio collettivo con l’inconscio esoterico.  
Torno a ricordare che l’inconscio collettivo racchiude e contiene tutte le conoscenze e le esperienze che l’uomo ha vissuto sin dagli albori della sua conoscenza. È il ricettacolo nascosto della esperienza di vita dell’uomo dagli albori della sua esistenza. 
L’inconscio esoterico ha una origine ben diversa. 
Nella mia concezione dell’origine dell’uomo ho detto – sul modello delle antiche credenze celtiche – che
“Così, due o tre milioni di anni fa ebbe inizio la razza umana generata dalla Terra e ispirata dallo Spirito di Dio” .
Ed ho chiarito che l’uomo è trino, composto da corpo, anima e spirito: il corpo è il prodotto di una lunga evoluzione fisica e mentale, l’anima è l’energia che anima il corpo, oltre ad essere il corpo sottile che tiene il corpo avvinto allo spirito che in esso è incarnato. 
Lo spirito non è dell’uomo è di Dio che all’uomo lo ha affidato per la realizzazione del suo progetto di rigenerazione di quegli spiriti che hanno tradito la Sua fiducia e che ad ogni modo sempre di Lui fanno parte.    
Lo spirito incarnato nell’uomo, essendo parte di Dio è onnisciente ed è proprio nello spirito – che Jung trascura – che si trova “nascosto” quell’inconscio esoterico che consentirà all’uomo, lo ripeto ancora una volta all’iniziato, se ne avrà le qualità (dono di Dio) e le capacità (sue personali) di accrescere la  propria  conoscenza e di fare riaffiorare quel “di più” che arricchirà l’uomo ed il suo spirito.  
Il mio più importante collaboratore dopo avere letto  uno dei miei lavori mi scrive:  
"Il primo pensiero che mi è venuto è quello del 'punto dal quale un M.M. non può errare”[…]
In altre parole, il Maestro è colui il quale giunge, nel suo percorso di ascesi spirituale, in questo punto (il Centro), mediano e che quindi partecipa di tutti quanti i mondi della creazione, e quindi partecipa del male, quanto del bene, della luce, quanto de l buio, delle virtù quanto dei vizi, sapendo trovare in essi il punto di equilibrio (Tiféret , appunto) e quindi non potendo errare.
Ma, poi mi sono spinto un po’ più in là.
Giustamente tu scrivi che solo passando da Tiféret si può arrivare alla sephirah/non sephirah Da’at, ossia alla Conoscenza unificante, che consente di pervenire alla comprensione (quantomeno parziale) del mondo superiore.
Ed allora penso, forse Tiféret è si il centro descritto dal rituale di terzo grado, dove gli iniziati, Maestri, possono (o dovrebbero) giungere per non errare. Ma non è la fine del percorso. Quello è il punto da cui non si può errare, perché è il punto che ci dirige direttamente verso il ns. vero obbiettivo, che è Da’at: la Conoscenza unificante, obiettivo che forse non raggiungeremo mai (almeno in vita)".
Risalendo nei secoli e nei millenni la scala della Vera Conoscenza l’iniziato tenta di arrivare a Da’at, che secondo la mia visione esoterica è già presente in lui sotto forma di quello che  abbiamo definito:  “inconscio esoterico”, inindagabile se non si hanno i mezzi intellettuali, culturali e genetici per svolgere questo lavoro.  
Questa possibilità è riservata all’ “uomo iniziato” che riesce a fare riaffiorare da una conoscenza eterna del passato quei concetti,  che chiamiamo “esoterici”, e che nel corso dei millenni si sono sempre più sepolti nell’inconscio. 
Questa è la ragione per la quale a me piace affiancare l’inconscio collettivo di  Jung con quello che io chiamo “inconscio esoterico” nel quale si può trovare la spiegazione di ogni cosa, al di là delle possibilità dell’ “Io” e del “Sé”. 

Michele Barresi, M.M. – Loggia So Ham 135 
con la collaborazione di G. Bentivegna